I miracoli della riconciliazione
Uomo e ambiente ricrescono insieme, dandosi la mano. Succede in Ruanda, il minuscolo Paese centrafricano che esattamente trent’anni fa sbigottì il mondo intero per essere diventato teatro di uno dei genocidi più terribili e cruenti del Novecento. In soli 100 giorni, dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, le milizie paramilitari di etnia Hutu sterminarono quasi un milione di Tutsi con il supporto dell’esercito governativo. All’origine, infondate divisioni etniche nate durante la colonizzazione belga e una propaganda d’odio sfociata con l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava il presidente Juvénal Habyarimana.
Oggi in Ruanda, soprattutto tra i più giovani, le parole Hutu e Tutsi non hanno più alcun significato. Non si tratta di rimozione, anzi, del genocidio si parla molto. Ma mai come un tabù, piuttosto come di un dramma da comprendere e assimilare. Non c’è famiglia che non abbia subito lutti o violenze in quelle terribili settimane, eppure non c’è spazio per covare vendetta in questo clima di pacificazione avviato grazie – e nonostante – la figura di Paul Kagame: leader del Fronte patriottico ruandese, è presidente dal 2000 ma le sue continue rielezioni hanno fatto spesso discutere, soprattutto dopo certi irrigidimenti degli ultimi anni.
Eppure non è difficile accorgersi del profondo senso di unità che regna tra i ruandesi: è sufficiente ritrovarsi in qualsiasi parte del Paese il giorno dell’umuganda, che di solito coincide con l’ultimo sabato del mese. Ogni attività lavorativa si ferma e tutti, nessuno escluso, si dedicano a lavori socialmente utili. Villaggi o quartieri hanno un responsabile che assegna a ciascuno le attività da svolgere secondo le esigenze del momento e allo stesso tempo la gente socializza contribuendo a migliorare le cose. E le cose per il Ruanda sono migliorate di tanto negli ultimi anni: il Paese è ritenuto uno dei più sicuri ed efficienti di tutta l’Africa e sta attirando sempre più investimenti stranieri (già nel 2017 la Banca Mondiale individuava nel Ruanda il secondo miglior Paese d’Africa per fare impresa). Non solo: tra il 1990 e il 2019 l’indice di sviluppo umano (HDI) è aumentato del 119% (la crescita media più alta del mondo).
Ma la cura attenta della comunità si traduce soprattutto in custodia dell’ambiente: dal 2008 in tutto il Paese è bandita la plastica, sono nati i primi impianti di riciclo e-waste, cioè per rifiuti elettrici ed elettronici, mentre per combattere l’inquinamento atmosferico le auto si fermano una o due volte al mese. Il governo è andato persino oltre, stilando una Green Growth and Climate Resilient Strategy che ha fissato al 2050 il termine per portare il Ruanda tra i Paesi a reddito alto, con un’attenzione speciale ai cambiamenti climatici e alla crescita verde. Una delle aree di intervento più importanti sarà quella legata all’ecoturismo e alla gestione dei parchi nazionali: il più visitato è il Volcanoes National Park, sui Monti Virunga al confine con Uganda e Repubblica Democratica del Congo, un’area verde lussureggiante costellata dai crateri di ben cinque vulcani.
Turisti di ogni lingua e nazionalità giungono qui per un solo motivo: incontrare i gorilla di montagna, primati molto rari e considerati in pericolo di estinzione. Da sempre minacciati dai bracconieri (per difenderli operò tra queste montagne anche la celebre zoologa e ricercatrice statunitense Dian Fossey, ritrovata uccisa nel 1985 dentro la sua capanna nella foresta) la loro situazione divenne ancora più critica con il genocidio: migliaia di profughi, in cerca di pascoli e terre da coltivare, devastarono infatti la foresta ed entrarono in conflitto con gli animali. «Ma oggi è tutto diverso – afferma con fierezza Prosper Uwingeli, da 17 anni direttore del parco –. La popolazione ha trovato nella conservazione della natura un obiettivo comune per riconciliarsi». I progressi sono sbalorditivi: nel 2003 il parco contava 5 mila visitatori all’anno e si potevano visitare solo 5 gruppi di gorilla. Ora invece se ne visitano 12 e i biglietti staccati superano i 40 mila. Biglietti molto costosi, per nulla alla portata di un normale turista. «Ne siamo consapevoli – precisa Uwingeli –, ma solo così possiamo contenere le presenze giornaliere e continuare il nostro progetto di conservazione. Il 10% delle entrate viene utilizzato per progetti di aiuto alla comunità locale: nuovi pozzi di acqua potabile, scuole, servizi. E la comunità risponde positivamente, capisce l’importanza di questi animali ed è sempre più disponibile a cedere le proprie terre per contribuire alla riforestazione».
Un miracolo comunitario, insomma, che vive il suo momento più alto ogni anno a settembre, quando la popolazione di tutta l’area si riunisce per il kwita izina, la grande festa di ringraziamento per i nuovi piccoli di gorilla nati nell’anno precedente. Partecipa il presidente in persona, accompagnato dal primo ministro e dalle più importanti personalità del Paese, oltre che da importanti ospiti internazionali chiamati a diventare ambasciatori dei gorilla nel mondo. Lo scorso settembre, sul grande palco sopra cui giganteggia una famiglia di primati realizzata con paglia intrecciata, sono stati scelti i nomi dei 23 cuccioli nati nel 2023. Nei canti di ringraziamento innalzati al cielo c’era la gioia di un popolo che, a trent’anni dall’orrore, ha ritrovato se stesso e la sua casa.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!