I segni della «nuova religione»
Nei grandi momenti di cambiamento d’epoca e di civiltà, le tragedie e le farse si intrecciano e spesso si confondono. Abbiamo assistito, anche quest’anno, all’insopportabile polemica sui presepi nelle scuole e nei luoghi pubblici, perché, a detta di alcuni opinion leader, avrebbero offeso bambini e persone di altre religioni; per poi scoprire, grazie a qualche chiacchierata con la gente, che alle persone di altre religioni il presepe non dava alcun fastidio, un astio che invece provavano intellettuali nostrani ideologicamente ingaggiati in una lotta senza quartiere per distruggere le ultime vestigia di tradizione cristiana e di identità storica. Come se il presepe fosse soltanto o soprattutto una faccenda di religione cristiana, e non invece una realtà meticcia fatta di un bambino, una capanna, pecorelle, pastori, contadine, asino, bue, angeli, laghetti di carta stagnola, meccanismi sofisticati per azionare pozzi e cascate, fuochi, luci, notti, il pastore Benino che dorme, persino Maradona e Sinner. I presepi li abbiamo amati e li amiamo perché è dove abbiamo imparato a rappresentare la vita, dove abbiamo rivisto la nostra gente, il loro amore.
Tutte faccende che, per i nostri soloni, sono davvero molto violente e offensive. In realtà dovremmo dire che ciò che veramente dà fastidio al nostro tempo è la natività, una rappresentazione tutta costruita attorno a un neonato, una mamma e un papà, in un mondo che i bambini non li fa più, e quindi non ama tutto ciò che li ricorda perché lo sentiamo come giudizio sulla nostra vita non abbastanza generosa per rischiare di mettere al mondo un bambino. Dimenticando, poi, che il presepe è parte della tradizione francescana, un dono di Francesco, che nella Greccio di ottocento anni fa volle rappresentare la nascita del Signore. E nacque come presepe vivente, come presente della vita, della natura, espressione di quella fraternità cosmica e uguaglianza di tutte le creature viventi che oggi tanto si vorrebbe, ovunque, ma non nel presepe.
La distruzione sistematica di ogni traccia della nostra eredità cristiana significa, inoltre, distruggere gli ultimi ponti che collegano i giovani con la comprensione dell’arte delle nostre città, nelle chiese e nei musei, i cui dipinti e statue sono in massima parte ispirati alla Bibbia e al cristianesimo; quell’arte che oggi sta ancora facendo vivere buona parte della nostra economia, e che non lo farà più quando la maggior parte dei nostri imprenditori culturali avrà smarrito tutti i codici simbolici cristiani.
Questa è la tragedia. Ma c’è anche la farsa. Gli stessi intellettuali, mentre criticano il presepe, sono quasi sempre silenti di fronte alla trasformazione del Natale in una festa comandata della nuova religione consumista. Un mese di acquisti di massa, aperto dal black friday, che ai nostri osservatori dà molto meno fastidio del piccolo presepe, icona di sobrietà e povertà.
Dovremmo allora comprendere che il vero conflitto è un conflitto di civiltà. Il presepe è simbolo di bambini, di famiglia, di relazioni, di lavoro, di povertà e di comunione, che erano anche i segni del Natale cristiano. Valori opposti a quelli del nuovo Natale consumista, che si basa sull’individuo, sullo spreco e sempre più sul self-regalo che ha preso il posto del dono. L’occupazione e la trasformazione delle feste nella storia è sempre stato l’atto definitivo dell’avvento delle nuove religioni. Ma i nostri intellettuali, troppo presi dal criticare il presepe, non se ne accorgono. E il nuovo culto consumista e nichilista avanza, sempre più indisturbato. Buon anno!
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