Il castello delle storie

Una residenza per i famigliari dei ricoverati in ospedale, all’interno dell’Istituto Teologico S.Antonio Dottore di Padova, dove c’è anche un collegio per gli universitari e il convento dei frati. Un incrocio di vite sostenuto dal 5 per mille.
05 Dicembre 2025 | di

Sono i particolari che rendono speciale un’esperienza. Ci rifletto, mentre mi guardo intorno nel grande atrio dell’Istituto S. Antonio Dottore di via san Massimo a Padova, la celebre istituzione per lo studio della teologia dei frati Minori Conventuali. Ma non sono qui per questo. Molto più prosaicamente, vengo a visitare un’opera sorta sottotraccia una ventina di anni fa e oggi diventata una realtà importante, che, almeno in apparenza, non ha nulla a che vedere con i tomi di teologia: si tratta della Residenza Placido Cortese, un ostello che offre accoglienza ai familiari dei malati, curati nel vicinissimo ospedale universitario della città. Davvero un aiuto essenziale, per chi, venendo da fuori, deve passare settimane o mesi accanto al proprio congiunto, senza spendere cifre esorbitanti. Da qualche tempo, grazie al 5 per mille, i frati sono riusciti a ristrutturare un piano abbandonato della struttura, ormai troppo grande per la carenza di vocazioni, aprendolo a chi ne ha più bisogno. Hanno cominciato con poche stanze, oggi ne hanno 20 e, da quando hanno aperto l’ala nuova, a gennaio, sono passate da qui più di 780 persone. Una residenza per i famigliari dei ricoverati in ospedale, all’interno dell’Istituto Teologico S. Antonio Dottore di Padova, dove c’è anche un collegio per gli universitari a basso reddito e il convento dei frati. Un incrocio di vite e di storie, sostenuto dal 5 per mille.

Mentre aspetto, sento la voce di un docente provenire dall’aula magna. Poco dopo un ragazzo esce con un testo di medicina in mano: «Allora non è solo teologia» penso. Più tardi mi spiegherà fra Alessandro Zottarel, guardiano del convento e rettore del seminario, che i frati hanno aperto le aule dell’Istituto teologico anche all’università e tengono persino un convitto, il Luca Belludi, per accogliere gli universitari in difficoltà economiche. «La teologia ha trovato il modo d’incarnarsi», dico tra me e me con un filo d’ironia. Nel frattempo, nel via vai degli studenti e dei frati, alla sinistra, proprio di fronte alla portineria, c’è una coppia sulla settantina, con due trolley, l’accento meridionale, i modi affettuosi di chi è stato qui più volte: «Anche stavolta ce l’abbiamo fatta. Grazie, qui è come essere a casa». Mi rendo conto che questo luogo di alta teologia ha un cuore pulsante: «Noi frati ci teniamo molto – mi dirà fra Alessandro – a che il Vangelo, ovvero la Parola studiata in questo luogo, si faccia Carità, secondo l’esempio di sant’Antonio». Un luogo pieno di vita, che sa accogliere la sofferenza e la difficoltà di tanti, in diverse fasi della loro esistenza.

A lezione di umanità

Nicoletta finalmente arriva, occhi chiari, capelli fitti e cortissimi, è qui dal 2015, proprio per gestire il servizio di accoglienza. È molto riservata, ma, dopo un po’, mi dice: «Questo posto mi ha cambiata, ho scoperto un’empatia profonda che non pensavo di avere. Ho tanti volti nel cuore: anziani spaventati, scaraventati qui dalla malattia, donne in gravidanza che rischiavano di perdere i bambini e Carlo, un ragazzino, che ha resistito contro il cancro per anni ma poi, proprio quando pensavamo che ce l’avrebbe fatta, è arrivata la chiamata dei genitori per dirci che non c’era più». Un gesto rivelatore dei legami che si creano. Ormai è chiaro: questa non è una semplice portineria. «Se non sei disposto ad accogliere speranze e dolori, non puoi stare qui».

Quando la sera cala, l’edificio diventa una grande casa a strati, una specie di castello errante tra le storie: al primo piano gli studenti. Al secondo, il nucleo storico del Placido Cortese, sopra ancora il convento e, staccata da una porta e un soggiornino, la nuova ala con le stanze familiari per i congiunti dei malati: «Sono vite che s’intrecciano – continua Nicoletta –. A volte gli studenti al piano terra fanno entrare gli anziani che hanno dimenticato le chiavi o li invitano a guardare la partita, visto che su non ci sono televisori. Altre volte i familiari dei malati chiedono ai frati di unirsi alla preghiera nella loro cappella al terzo piano, per sentirsi meno soli». E aggiunge: «Ma cerca Gheeti, la signora dello Sri Lanka che rassetta le stanze, lei ha tante storie da raccontare». Ne ha anche Lucica, la signora rumena che sta con Nicoletta all’accoglienza e che mi ha raggiunto scambiandosi con la collega per dare a sua volta testimonianza: «Gli ospiti del Placido Cortese sono speciali, non sono qui in vacanza. Alcuni sono persone semplici, che non sono mai uscite dai loro paesini; la malattia li ha portati fin qui e si sentono soli e frastornati. Li seguiamo in tutto, da come spostarsi in città al supermercato in cui fare la spesa. Tutti dimostrano una grande gratitudine, ma in realtà anche per noi la loro presenza è insegnamento: ci mostrano ogni giorno che cos’è essenziale nella vita». E aggiunge: «Cerca Gheeti, lei conosce le storie».

Un’accoglienza francescana

Con l’aumentare degli ospiti, i frati hanno sentito la necessità di aprire uno sportello di dialogo con un religioso o una religiosa, per offrire a tutti quelli che lo desiderano una possibilità di ascolto e di preghiera. Ad accettare l’incarico, fra Tullio Pastorelli, che se fosse un militare sarebbe un generale con il massimo dei gradi, per l’esperienza sul campo: missionario in Cile, sopravvissuto a un cancro e, subito dopo, a un terribile incidente stradale in cui ha perso le gambe. Il bello di padre Tullio è che, insieme all’esperienza del dolore, ha maturato una bella ironia. Arriva nella sua carrozzina motorizzata, con un basco crochet multicolor e una mantellina latinoamericana sul grembo. «Ho imparato sulla mia pelle che l’ascolto rigenera – spiega fra Tullio –. In una struttura come la nostra, l’ospitalità deve sempre di più diventare accoglienza francescana». Dall’alto dei suoi gradi, fra Tullio sa che con il dolore devi andarci piano: «Non mi metto la tonaca, perché s’impiglia nelle ruote e quindi molti ospiti non sanno che sono un frate. Né io voglio imporre la mia spiritualità, qui passano ortodossi, protestanti, ebrei, atei. Ma ciò che posso dire è che il dolore apre a qualcosa di più grande. Quando stai bene metti nel cassetto i dolori del passato, ma quando stai male quel cassetto si apre e tu ci vedi dentro. Per questo stare insieme aiuta e non ti importa più se l’altro è diverso da te». Partiamo per la visita alla nuova ala Placido Cortese. Entriamo nel corridoio, che sa ancora di nuovo. Un’ospite della provincia di Napoli ci ferma per scambiare due parole. Ha il marito con un cancro, ma è piena di speranza: «Qui ci sentiamo a casa, stiamo anche tra noi, come fossimo una famiglia, e questo ci conforta».

Fra Tullio mi mostra gli ambienti comuni, la lavanderia, la grande cucina che dà sul giardino e sul parcheggio. Alla fine del corridoio c’è un carrello per le pulizie. Entro nella stanza e, finalmente, c’è Geethi! Ha circa 35 anni, la pelle ambrata, i capelli lunghi. Sta cambiando le lenzuola in una quadrupla piena di luce, nuova fiammante, «perché chi sta male deve stare nel bello» mi ha appena detto Tullio. All’inizio Geethi risponde con timidezza: «In questo posto le persone sono gentili – la prende alla larga la questione del dolore, prima vuole mostrare la gratitudine –. I frati mi hanno fatto studiare, mi hanno dato l’accesso alla grande biblioteca, i colleghi mi hanno insegnato a lavorare. Qui sono rinata».

Ha le chiavi di tutti i piani, Geethi, entra ed esce dalle storie degli altri in punta di piedi, un po’ per carattere e un po’ per cultura. E gli abitanti del grande castello a strati, che è l’Istituto Teologico, ormai lo sanno. «Io entro, saluto, non domando. Loro raccontano, se vogliono, e io sento il dolore, la speranza, l’attesa, la paura, la gioia. Il giorno dopo riassetto e torniamo a parlare insieme». Le domando la storia che più le ha cambiato la vita. Geethi si siede accanto a me sul divano, a fianco il cambio delle lenzuola, la testa bassa: «C’era una signora che veniva qui da tre anni. Suo marito aveva un tumore. Un giorno l’ho incontrata in cucina, stava piangendo. I medici avevano detto che non c’era più nulla da fare, che dopo tre giorni il marito sarebbe morto. Lo rimandavano qui perché si salutassero. Però in quei giorni anch’io stavo perdendo mio padre. Davanti alla loro sofferenza, mi sono aperta e abbiamo condiviso questo dolore. Ci siamo preparati a quell’evento insieme. Alla fine di tutto, lei mi ha regalato un braccialetto di sant’Antonio, in onore di suo marito che si chiamava Antonio. Mio padre, invece, si chiamava Francesco. Quando vado in Basilica del Santo a pregare per mio padre Francesco prego anche per il signor Antonio». A volte la quotidianità è più straordinaria di una storia inventata. Due uomini di culture lontane muoiono insieme, vegliati dalle proprie donne, nel nome dei due più grandi santi francescani, in un luogo in cui si studia teologia e s’impara ad aprire le porte del cuore. 

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Data di aggiornamento: 05 Dicembre 2025
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