«Una Chiesa povera per i poveri»
Nell’editoriale del mese di giugno, ricordando il compianto papa Francesco e rilevando alcuni aspetti che lo legavano a sant’Antonio, abbiamo colto l’attenzione di entrambi per i poveri e gli ultimi. È stata una bella sorpresa che la prima esortazione apostolica di papa Leone sia stata dedicata proprio al tema dell’amore per i poveri, progetto che lo stesso Pontefice ha accolto come eredità dal suo predecessore. Anche la data della pubblicazione del testo è suggestiva: il 4 ottobre, festa di san Francesco di Assisi. La figura di questo santo è particolarmente legata al tema, soprattutto a partire dalla sua esperienza di misericordia: come afferma nel suo Testamento, il Signore lo ha condotto tra i lebbrosi e lui si è curato di loro. Erano essi tra i poveri del tempo, considerati maledetti da Dio per la malattia che portavano nel corpo, e per questo costretti a vivere in attesa della morte, emarginati da tutti, addirittura al di fuori della società. In seguito, si è scoperto che la lebbra non è una malattia molto contagiosa, non basta un contatto occasionale per trasmetterla, ma già la presenza delle macchie sulla pelle era letta come segno di impurità: questo lo ritroviamo, ad esempio, nella Bibbia (cfr. Lv 13).
Oggi sappiamo che si può arrestare la progressione di tale malattia, anche se non si riescono a riparare i danni neurologici o le deformità da essa causate. Il malato di lebbra, perciò, non è un pericolo, come veniva visto in passato; tuttavia, nel nostro tempo, alcune categorie di persone sono a volte considerate in modo simile ed emarginate: per la loro storia, la loro provenienza, il loro orientamento sessuale. Il giovane Francesco oltrepassa le barriere ed entra in relazione con loro, sfidando lo stigma sociale, e grazie a questa esperienza vive una profonda conversione. Il suo non è un prendersi cura a distanza, ma un venire a contatto con i poveri del suo tempo. E da lì inizia una progressiva spoliazione che ha soprattutto due scopi: imitare Gesù e incontrare gli altri come fratelli. A lungo Francesco si interroga sulla volontà di Dio e, nella preghiera, vive un incontro profondo con il Signore, in particolare con il Crocifisso. È la contemplazione di un Dio che si fa povero per salvarci: si fa uomo, svuotando se stesso, bambino che viene posto in una mangiatoia, perché per lui non c’era posto; da povero vive nel mondo, senza fissa dimora, invitando tutti a confidare non tanto nei beni materiali, ma nella vera ricchezza che sta nell’Amore del Padre e degli altri; alla fine, rifiutato dai suoi, viene spogliato di tutto e, nudo, muore in croce.
Poiché il Signore si è fatto povero, anche Francesco vuol vivere in tal modo: pellegrino e forestiero nel mondo, senza appropriarsi di nulla. Essere poverello – aggettivo che Francesco usa per se stesso solo nella lettera a donna Jacopa, mentre altrove si definisce «piccolino» –, poi, è ciò che gli permette di incontrare profondamente il prossimo, i poveri. Come afferma il papa in Dilexi te, «la sua povertà era relazionale: lo portava a farsi prossimo, uguale, anzi, minore» (n. 64). In tal modo Francesco tende a colmare il divario presente quando ci si relaziona con l’altro: non fa pesare le differenze, ma cerca l’incontro. E quella delle disuguaglianze che rafforzano il divario soprattutto con i poveri è una delle questioni trasversali che emergono nell’esortazione apostolica: spesso esse nascono da disparità economiche, educative, ma anche dalle distanze che noi stessi teniamo dai poveri per i più svariati motivi. San Francesco, con il suo esempio, mostra come colmare la distanza: è l’invito espresso da papa Francesco e ribadito da papa Leone a una «Chiesa povera per i poveri».
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