Il colore dei tulipani
Denis Sosnenko, 21 anni, cammina davanti a tutti, gli occhi fissi sul terreno, curvo sotto il peso dello zaino. È lui a dare la direzione, un passo dopo l’altro, è lui a fermare la colonna quando necessario. Nella mano destra impugna la corta pala da scavo, sotto il braccio stringe un paio di sacchi in plastica bianca: in gergo, sacchi salma. A chiudere la fila di questo gruppo, il «Platsdarm» (letteralmente: posto di combattimento), è il comandante Olexiy Yukov, 35 anni. Sono comunemente conosciuti come Black Tulip: tulipani neri. Il loro compito è quello di recuperare i cadaveri dei soldati caduti lungo la linea del fronte. Russi o ucraini, poco importa. La loro filosofia è chiara: tutti meritano d’essere riconosciuti e ricordati, tutti meritano una degna sepoltura. «Sono anime», taglia corto Olexiy Yukov quando gli chiediamo se sia opportuno rischiare dei vivi per dei morti. E prosegue per la sua strada: non c’è altro da aggiungere.
Il sentiero si apre subito dopo quel che resta di un villaggio nella cintura di Sloviansk, costellato di blindati schiantati e contorti, raso al suolo dai recenti bombardamenti, e s’inoltra verso un bosco che già dopo i primi chilometri s’intravede all’orizzonte: i ceppi frantumati, i rami spezzati testimoniano una feroce battaglia. Mine antiuomo, mine anticarro, Uxo (bombe inesplose) sono sparsi ovunque: procediamo in fila indiana, sui passi di chi precede, a un cenno di Denis le posizioni si congelano, ognuno resta esattamente dove si trova, fino a quando l’ordigno individuato non viene segnalato con un nastro giallo, legato su un ramo. Il rombare sordo dell’artiglieria, che in queste ore concentra il suo furore sulla città di Bakhmut, è una monotona, sinistra colonna sonora: solo le esplosioni più vicine scuotono il suolo. Dalla terra dura, gelata, le vibrazioni si aggrovigliano alle caviglie per risalire al ventre, dove si concentrano in una sensazione d’indefinibile tensione. Usano gli occhi e le mani, i Black Tulip. Forse l’intuito, di certo l’olfatto. Nessuno strumento elettronico, nemmeno un metal detector. Non servirebbe a molto, molte mine sono in plastica verde, dalla caratteristica forma a farfalla, non rilevabili.
A ridosso del bosco dove si sono concentrati i combattimenti è il comandante Olexiy a tracciare il percorso. Sonda il terreno con una lunga asta di metallo, l’impugnatura ottenuta da spire di nastro adesivo azzurro. Quando la estrae, ne annusa la punta. Se annuisce, il gruppo si raccoglie intorno al punto indicato e inizia a scavare. L’operazione è estremamente delicata. Pericolosa. I corpi che vengono alla luce conservano, nelle loro divise, granate e munizioni. A estrarli dalla terra restano solo due operatori, mentre gli altri attendono a poca distanza, appiattiti a terra, il momento in cui il corpo viene sollevato, perché il rischio che sia «trappolato», ovvero che al di sotto di esso sia stata posta una granata innescata, è molto alto. Le operazioni di scavo e recupero durano fino a sera, quando la colonna si rimette in marcia per raggiungere il furgone contrassegnato da una croce rossa e un numero in codice, 200, che ne chiarisce la destinazione.
Caricati i corpi, ci si accorge che il furgone è immobilizzato nel fango: la temperatura, salita nel corso della giornata, ha trasformato la terra gelata in una poltiglia nera, scivolosa. Denis si sposta a lato del mezzo, prova a spingere mentre le ruote affondano sempre di più. Fino a quando una di esse innesca una mina anticarro sepolta dalle piogge autunnali. Muore così, Denis. È la sera del 23 gennaio 2023. Non aveva mai imbracciato un fucile. Lui e il gruppo cui apparteneva hanno scelto di combattere questa guerra recuperando i corpi dei soldati caduti. Per far questo rischiano ogni giorno la vita, come i soldati al fronte che nel corso dei funerali, tenutisi il 29 gennaio a Sloviansk, hanno celebrato il suo eroismo, il suo sacrificio, al pari dei compagni caduti in battaglia.
Non si contano, le vittime di questa guerra. Caduta Soledar, l’epicentro della battaglia è ora Bakhmut, ma i bombardamenti investono ormai anche Chasiv Yar, Lyman, Kostiantynivka, Kramatorsk. Sul fronte di Donetsk, anche Pisky, Marinka, Avdeevka sono cumuli di macerie in cui i pochi civili rimasti tentano di sopravvivere. Spesso, devono essere evacuati da volontari, con operazioni estremamente pericolose. Non tutti, però, sono disposti ad abbandonare le loro case, nonostante la situazione sia indescrivibile: il 28 gennaio le autorità di Avdeevka hanno dovuto intimare a tutti i civili ancora presenti nell’aera di lasciarla immediatamente. In molti centri a ridosso del fronte, come Izyum, tristemente famosa per il massacro di 440 civili sepolti in un bosco al limitare della città, molte persone continuano a vivere in rifugi di fortuna. La cupa atmosfera che grava sulle zone liberate è data dallo scoramento delle persone che, dopo mesi di occupazione, di violenze, di torture, faticano a sopportare le condizioni drammatiche in cui sono costrette a vivere da una guerra che sembra aumentare d'intensità giorno dopo giorno.
La situazione non è diversa a Cherson. Igor, un giornalista locale arrestato e torturato durante l’occupazione, definisce «apatici» gli abitanti rimasti in città: in realtà, il fuoco continuo sulle abitazioni civili, le lunghe code cui è costretta la popolazione per assicurarsi la razione giornaliera di aiuti alimentari, che consistono in un pezzo di pane e una scatoletta di carne, le difficoltà determinate dalle interruzioni costanti di corrente non possono che sortire questo effetto. A Posad Pokrovske, un villaggio lungo l’asse Mykolaiv-Cherson, la gente ha ricominciato piano piano a tornare, a ricostruire. Ma ogni casa, ogni aiuola, in qualche caso gli stessi rifugi, gli ambulatori, le chiese, le scuole sono stati minati. C’è un detto, in Abkhazia: «Come puoi spegnere l’acqua che brucia?». Si riferisce alla guerra georgiana, ma si adatta perfettamente a qualsiasi guerra che raggiunga un punto di non ritorno. E la guerra in Ucraina sembra aver raggiunto il suo.
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