28 Marzo 2022

Il made in Italy torna a casa

Si chiama «back-reshoring». È un fenomeno noto da alcuni decenni, accelerato dagli effetti della pandemia sui mercati internazionali. Molti brand italiani trovano più conveniente consolidare in Italia produzioni e forniture.
Il made in Italy torna a casa

© melitas / Getty Images

Dalla congerie di guasti e di crisi economiche e sociali diffuse, che la pandemia ha generato negli ultimi due anni a livello internazionale, è emersa anche una nuova e non trascurabile consapevolezza: la globalizzazione non è più un feticcio intoccabile e nemmeno un tabù della macroeconomia. Già da alcuni decenni si segue con interesse il progressivo ritorno in patria (in gergo reshoring o back-reshoring) di numerose attività produttive precedentemente de-localizzate all’estero (offshoring). La globalizzazione – come le conseguenze della pandemia hanno ulteriormente evidenziato – è un congegno assai delicato che investe filiere produttive, approvvigionamenti, risorse energetiche, trasporti, logistica, distribuzione. E quando un anello o parte di questa catena produttiva saltano o subiscono contraccolpi, i riflessi hanno effetti sistemici sull’intero complesso delle relazioni economiche e commerciali, non solo in singole aziende o in Paesi diversi, ma financo sul portafoglio e sulle necessità primarie dei consumatori. Lo abbiamo sperimentato negli ultimi mesi con le difficoltà di reperire merci e prodotti, e con il rincaro delle bollette di elettricità e gas. Questi riflessi sistemici hanno risonanza assai più marcata sulla vita e sulle prospettive delle imprese. Anche quando de-localizzano. Il ritardo di una fornitura, lo scollegamento di una filiera produttiva o di un indotto, magari parcellizzato in Paesi differenti, ma interdipendenti dalla logistica, possono condannare un’azienda, anche florida, a perdite di bilancio rilevanti, se non alla chiusura o alla bancarotta.

Le sinergie ritrovate

Il fenomeno del back-reshoring era già noto fin dagli anni Ottanta del secolo scorso, ma la crisi economico-finanziaria del 2008-2009 e la pandemia, unite a scelte di politica economica attuate dalle principali economie occidentali, hanno accelerato il trend del ritorno di attività manifatturiere e di approvvigionamento nel Paese d’origine delle imprese. Negli ultimi anni, l’Asia è la macro-area che ha perso più attività manifatturiere all’estero mentre l’Europa ne ha guadagnate di più. E l’Italia è tra i principali protagonisti di questa tendenza. Il professor Luciano Fratocchi è ordinario di Ingegneria Economico-Gestionale all’Università de L’Aquila e monitora da anni questo fenomeno. «La banca dati UnivAQ Manufacturing Reshoring Dataset, che è la più completa a livello mondiale – afferma Fratocchi – raccoglie oltre 1.500 decisioni di reshoring produttivo, di cui oltre la metà implementato da aziende europee. Tra queste, le italiane e le francesi primeggiano in assoluto».

Sono numerosi i settori strategici per l’economia e l’industria italiana che possono beneficiare degli effetti del back-reshoring: l’abbigliamento e la pelletteria, la fabbricazione di macchinari, di prodotti elettronici e apparecchiature elettriche, e la fabbricazione di mobili. «La ragione principale che viene addotta dalle imprese che rientrano è la possibilità di avvalersi del marchio “made in Italy” – afferma il professor Stefano Elia, docente di International Business al Politecnico di Milano –. E poi il miglioramento dei servizi al cliente e della qualità dei prodotti, e la necessità di riavvicinare la produzione alla ricerca e allo sviluppo». Occorre, però, ricordare che «nel marzo del 2021 il Parlamento europeo ha diffuso un report nel quale ha fornito le linee guida per un “reshoring europeo” post-Covid-19 delle catene globali del valore in quattro settori strategici: farmaceutico, prodotti medicali, solare e semiconduttori, che quindi meritano un’attenzione particolare da parte delle nostre imprese e dell’Italia». «A differenza di Paesi come Francia e Gran Bretagna – aggiunge Fratocchi – l’Italia è riuscita a mantenere un know-how produttivo di primo livello. Ma queste conoscenze e competenze spesso coinvolgono personale prossimo al pensionamento mentre molte imprese hanno difficoltà a trovare giovani specializzati che vogliano fare il “lavoro di fabbrica”. È un problema soprattutto culturale e di orientamento, su cui l’Italia dovrebbe intervenire subito e con adeguate risorse».

C’entra solo la pandemia in questo significativo cambio di passo? Secondo la professoressa Francesca Faggioni, docente di Economia e gestione delle imprese e Management delle imprese internazionali all’Università degli Studi Roma Tre, e autrice del libro Offshoring vs Reshoring – Dalla strategia di internazionalizzazione al design dei network manifatturieri (Franco Angeli editore), le strategie di offshoring, cioè di de-localizzazione, «sono correlate alla necessità dell’impresa di presidiare direttamente il territorio estero, di sfruttare i differenziali del costo della produzione in Paesi meno sviluppati, godendo al contempo degli incentivi governativi messi a disposizione localmente. In passato, data la bassa complessità ambientale, al verificarsi di queste circostanze valeva dunque la pena disaggregare i processi aziendali dislocandoli globalmente». Tuttavia le ragioni che spingono le imprese a de-localizzare «non derivano sempre e solo da una logica di riduzione dei costi – ammette Elia – ma anche dalla necessità di incrementare la competitività, attraverso l’accesso a risorse produttive specializzate o know-how che non sono disponibili nel Paese d’origine, l’espansione delle vendite in nuovi mercati, e la partecipazione alle catene globali del valore che non è sempre possibile dal proprio Paese d’origine».

«Oggi, al contrario – puntualizza Faggioni – velocità di adattamento e coordinamento tra le funzioni aziendali sono motivazioni prevalenti nella riorganizzazione della produzione e nell’elaborazione delle strategie delle imprese». Per questo motivo, molte aziende optano per rientrare in patria. Inoltre «con il venir meno dei vantaggi locali delle sedi estere, la scelta di rimpatriare le attività consente un processo di ottimizzazione della struttura aziendale che risulta concentrato sulla creazione e sullo sfruttamento di economie “tra” le attività generatrici del valore, piuttosto che sul mero rendimento di specifiche attività della catena stessa come avveniva con le precedenti scelte de-localizzative. Le scelte di reshoring sono, dunque, ancorate alle interdipendenze che le attività esprimono per certi livelli di aggregazione, in considerazione delle esigenze di servizio espresse sui mercati di sbocco. Nel caso delle imprese italiane, ciò ha tipicamente senso quando si intendono ricreare le sinergie perdute a causa dell’offshoring tra attività di ricerca, sviluppo e produzione o tra le attività di progettazione, stile, prototipazione, sviluppo e produzione».

Il back-reshoring non riguarda solo le attività produttive, ma anche le forniture. «Le imprese che optano per il rientro della produzione sono circa il 15 per cento – aggiunge Elia – mentre quelle che optano per il rientro delle forniture, cioè che scelgono di riapprovvigionarsi da fornitori italiani anziché esteri, sono quasi una su quattro. Tra le cause più frequenti addotte dalle imprese per giustificare il rientro delle forniture, è stata indicata la disponibilità di fornitori idonei in Italia (che premia l’eccellenza industriale del nostro Paese), l’allungamento dei tempi di consegna dall’estero e l’incremento dei costi delle forniture estere, inclusa la logistica». Oggi la globalizzazione è meno conveniente di dieci anni fa «senza contare che la crescente centralità che sta acquisendo la sostenibilità in ogni sistema produttivo, rende sempre più necessario accorciare le filiere».

«Insieme ai colleghi del Gruppo di ricerca Re4IT che coinvolge anche le Università di Bologna, Bergamo e il Politecnico di Milano, stiamo ultimando un’indagine a livello nazionale in collaborazione con il Centro Studi di Confindustria – ci informa Fratocchi –. I dati dimostrano chiaramente che una percentuale significativa di imprese ha deciso di riportare in Italia le forniture negli ultimi cinque anni. Una percentuale altrettanto significativa è intenzionata a riportarle nel futuro prossimo. Ovviamente non tutti i materiali sono disponibili a chilometro zero. In quest’ottica bisognerebbe valutare il ruolo delle cosiddette “materie prime seconde” ovvero quelle derivanti dal riciclo di prodotti giunti a fine vita». Un segmento di mercato in cui l’Italia e l’Europa potrebbero diventare nuove miniere di materiali, con un impatto positivo anche sul versante della sostenibilità ambientale.

Italia più competitiva

Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a una serie di cambiamenti e trasformazioni che hanno reso la strategia del back-reshoring, in alcuni casi, più conveniente e promettente che in passato. «In particolare – osserva Elia – l’incremento del costo della manodopera nei Paesi dell’Est e in Asia (soprattutto in Cina e in India), l’aumento dei costi dei trasporti, l’accelerazione della trasformazione digitale e dell’industria 4.0 (che rendono possibile sostituire manodopera con tecnologia), l’emergere di tensioni politiche internazionali e nuovi dazi doganali (in particolare tra Cina e Stati Uniti), e l’importanza crescente che i consumatori attribuiscono ai prodotti di prossimità (cioè il made in Italy, nel caso del nostro Paese), rendono oggi più vantaggioso che in passato propendere per un accorciamento delle filiere di produzione. Il punto, però, non sta tanto nel “proteggere” gli interessi locali, in quanto il back-reshoring non può e non deve essere concepito come una forma di “protezionismo” o di “nazionalismo”, ma come una strategia per rendere l’Italia più competitiva. Dal momento che la competizione internazionale oggi non verte più solo sul costo, come nell’era della globalizzazione, ma anche e soprattutto sulla qualità, sulla sostenibilità e sul made in Italy, il back-reshoring rappresenta una via attraverso cui le nostre imprese e il Sistema Paese possono azionare tali leve e diventare più competitive, unitamente all’adozione di tecnologie digitali che consentono sia di ridurre i costi, sostituendo il basso costo della manodopera estera con l’industria 4.0 e il lavoro qualificato nel Paese d’origine, sia di migliorare la qualità delle produzioni».

Ma quali rischi devono mettere in conto le imprese che affrontano questa migrazione al contrario? «La pandemia – sottolinea Faggioni – ha chiarito ulteriormente le condizioni di rischio sopportabile per garantire efficienza-efficacia delle decisioni aziendali in situazioni di forte stress del contesto trans-nazionale e di mercato. Parlo in particolare dell’eccessiva dipendenza dai fornitori cinesi, dei colli di bottiglia lungo le catene di fornitura, della mancanza di visibilità delle operazioni nelle catene di approvvigionamento, dell’incremento dei costi di trasporto di merci e semilavorati nei container, dell’inflazione in generale. Il reshoring e la regionalizzazione delle catene del valore potrebbero assorbire parzialmente il rischio, nonché incrementare il livello di servizio offerto al cliente finale. In tutto il mondo i casi di reshoring restano contenuti in numero, e in Europa su 3-4 operazioni di offshoring, solo una è soggetta a rimpatrio».

Sul versante occupazionale, i posti di lavoro generati dal back-reshoring non saranno paragonabili a quelli persi nelle precedenti ondate di de-localizzazione. «Il reshoring ha soprattutto un ruolo “difensivo” – sostiene Fratocchi – nel senso di favorire il livello occupazionale attuale». Gli fa eco Faggioni: «Le statistiche associano al fenomeno del reshoring anche solo il rimpatrio di una singola linea di produzione, presentando quindi impatti limitati sulla creazione di nuovi posti di lavoro. Il tema, piuttosto, è quello di riattivare i collegamenti e le connessioni perduti con il territorio e con i sistemi locali, come i distretti industriali, per ricominciare una nuova storia dello sviluppo del Sistema Italia».

Ricerca e sicurezza

Il ritorno in patria delle imprese italiane o di parti delle lavorazioni che le contraddistinguono, non ci mette al riparo dai tentativi «predatori» di temibili concorrenti. Su tutti la Cina che ha stretto accordi per finanziare la ricerca in alcune università italiane di cui poi si gioverà direttamente. «Ma anche nel proprio Paese, Pechino da anni sta investendo in ricerca e sviluppo – ribatte Fratocchi –. Da noi le risorse dedicate all’innovazione sono state per troppo tempo limitate, e spesso la collaborazione tra imprese, da un lato, e università e centri di ricerca, dall’altro, non è stata facilitata. Una sfida che l’Italia non può più rinviare. In quest’ottica, si vedono alcuni primi interventi – quali il bando sugli ecosistemi dell’innovazione finanziato dal Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza – che risultano andare nella direzione giusta».

Il tema centrale resta quello di tutelare le nostre imprese da scalate ostili nei settori strategici nei momenti di maggiore crisi e di vulnerabilità. «Questo è un compito anche della politica – avverte Faggioni –. Per il resto, il finanziamento della ricerca, ancorché privato e con le necessarie cautele, è una manna che ricade sempre sul territorio in termini di conoscenza e di attrattività del Paese, perché richiama insediamenti esteri di qualunque tipo. Sarebbe anche fondamentale trattenere parte del valore aggiunto creato dalle imprese straniere sul nostro territorio, invece che preoccuparsi di chi attualmente lo popola». La Cina è forse oggi il mercato più importante al mondo, e le nostre imprese sono ancora poco presenti in questo Paese. «Non si può negare – riconosce Elia – che qualche rischio di trasmissione di know-how ci sia, come avviene in tutte le partnership e joint-venture. Sicuramente occorre una certa attenzione e vigilanza da parte di università e istituzioni, valutando ciascun singolo caso».

Chilometro zero

Le difficoltà di approvvigionamento di materie prime, merci e componentistica come i microprocessori, e anche l’impennata del costo dell’energia che abbiamo sperimentato negli ultimi mesi, hanno suggerito agli imprenditori italiani di tornare al chilometro zero? «Non è da escludere nel medio-lungo termine una tendenza verso la cosiddetta “regionalizzazione” delle supply chain (catene di approvvigionamento), un accorciamento delle filiere, e un incremento della diversificazione – prevede Faggioni –. Sono scelte orientate al bilanciamento del rischio e ad un incremento della sostenibilità economico-sociale e ambientale delle imprese. Tuttavia, si tratta di scelte strutturali complesse e costose perché occorre procedere a ridefinire la morfologia dell’organizzazione aziendale manifatturiera. Nel breve termine, invece, abbiamo già assistito a una serie di fenomeni “tampone”, come le politiche di incremento del numero dei fornitori da allertare in caso di emergenza, l’ampliamento delle scorte di sicurezza, l’adozione di tecnologie per incrementare la capacità di diagnosi dei flussi logistici lungo la filiera (tecnologie digital twin), ecc. Sul fronte delle materie prime, ad eccezione di quelle naturali, c’è attualmente un acceso dibattito sulle cosiddette “materie prime strategiche”, sulle quali manca una politica nazionale. Per l’approvvigionamento di semilavorati e componenti, come i microprocessori, inoltre, l’obiettivo potrebbe essere quello di creare nel nostro Paese e a livello comunitario una specializzazione produttiva sui modelli avanzati di microprocessori per rilocalizzare un centro di competenze almeno in territorio europeo».

Nuove professionalità

«L’Italia – avverte Elia – deve tenersi pronta a diventare più competitiva per attrarre le imprese italiane che optano per il back-reshoring, e quelle europee che scelgono il near-shoring, come il caso di un’impresa francese che rientrasse dalla Cina e scegliesse l’Italia anziché la Francia come nuovo Paese in cui collocare la propria filiale. Il rientro di attività produttive spesso si accompagna alla trasformazione digitale di alcuni processi, e dunque il back-reshoring può addirittura stimolare uno skill-upgrading, cioè un incremento delle qualifiche e un aumento delle specializzazioni richieste dal mercato. Bisogna evitare il rischio di trovarsi impreparati a livello Paese con una scarsa offerta di lavoro qualificato. Occorrono politiche nazionali che favoriscano lo sviluppo di competenze STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e promuovano la formazione di addetti nel settore industriale favorendo l’upgrading di competenze manageriali, tecnologiche e digitali». Il back-reshoring ci consentirebbe di tornare a recuperare know-how. Secondo Faggioni «le nostre imprese hanno ampiamente dimostrato la loro vitalità e creatività, rinnovando continuamente le basi del vantaggio competitivo nazionale. I dati del Prodotto interno lordo e della produzione industriale dell’ultimo anno lo dimostrano. Da questo punto di vista è inutile proteggere le innovazioni se il mercato ne richiede di nuove. Piuttosto la sfida sta nel mantenere nel territorio una capacità “generativa” in un contesto iper-competitivo. Le nostre imprese sono abili in questo, ma il sistema non dovrebbe lasciarle sole in questo meccanismo di co-creazione, come invece spesso capita».

«Il back-reshoring è sicuramente alimentato dalla ricerca e dall’innovazione, non solo di prodotto e di processo, ma anche organizzativa e di marketing – conclude Fratocchi –. In molti casi che ho studiato in questi anni, l’innovazione ha rappresentato un fattore abilitante di primaria importanza. Il sistema produttivo italiano, fortemente caratterizzato da realtà imprenditoriali di minori dimensioni, deve compiere uno sforzo importante e instaurare ulteriori collaborazioni tra imprese e ricerca». Quel che manca è una seria politica industriale di respiro pluriennale su cui poter costruire la crescita economica e occupazionale dell’Italia, ma che da troppo tempo la politica di casa nostra continua a eludere e a rinviare.

 


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Data di aggiornamento: 30 Marzo 2022
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