Il Palazzo di veto
In un momento storico cruciale come quello che stiamo vivendo, il maggior pericolo che corre l’Onu (Organizzazione delle Nazioni Unite) è quello di implodere, perdendo la sua autorevolezza, sotto gli strali di chi pensa che il nuovo ordine mondiale vada imposto con le armi e con la forza, e che i valori della democrazia e della libertà siano solo l’inutile orpello di una società decadente. Invero, di fronte alla barbarie, soprattutto contro l’inerme popolazione civile, consumatasi nella guerra in Ucraina – ma non è l’unico conflitto tra decine di altri che interessano il pianeta – viene da chiedersi, e senza retorica, se l’umanità abbia effettivamente messo a frutto qualche millennio di evoluzione valoriale e culturale oppure se sia appena uscita dalle caverne. L’Onu è nata 77 anni fa in California, in occasione della Conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945) quando la Seconda guerra mondiale era all’epilogo. A ottobre di quello stesso anno, veniva ratificato lo Statuto. L’intento dichiarato era quello di superare la fallimentare esperienza della Società delle nazioni che non era riuscita a scongiurare lo scoppio di quel conflitto planetario, e di «preservare la pace e la sicurezza collettiva grazie alla cooperazione internazionale».
Oggi fanno parte dell’Onu quasi tutti gli Stati del mondo. La Carta delle Nazioni Unite individua quattro funzioni fondamentali: «Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni, cooperare nella risoluzione dei problemi internazionali e nella promozione del rispetto dei diritti umani, rappresentare un centro per l’armonizzazione delle diverse iniziative nazionali». Tuttavia, il limite più grande dell’operatività del Palazzo di Vetro deriva, paradossalmente, proprio dal suo Consiglio di sicurezza, all’interno del quale, su ogni risoluzione, può essere esercitato il diritto di veto da parte di uno dei cinque membri permanenti che godono di tale privilegio, ovverosia Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Cina e Russia (fino al 1991 Unione Sovietica), Paesi usciti vincitori dalla Seconda guerra mondiale. Una volta fatto valere il diritto di veto, qualsiasi risoluzione viene «annullata» con buona pace di chi reclama il rispetto e la tutela dei propri diritti di fronte all’atto d’imperio unilaterale di uno Stato membro che fa uso, o abusa, del diritto di veto per tutelare i propri interessi, prima ancora di salvaguardare il diritto internazionale. L’ultimo scandalo è quello della risoluzione di condanna contro l’aggressione militare russa ai danni dell’Ucraina, risoluzione sulla quale Mosca, ovviamente, ha posto il suo veto in Consiglio di sicurezza. Quest’organo, infatti, vota anche le eventuali sanzioni applicabili in modo vincolante contro uno Stato membro che abbia violato il diritto internazionale, e soprattutto autorizza a intraprendere azioni militari contro un aggressore.
Una toppa, solo morale, ce l’ha messa, per fortuna, l’Assemblea generale dell’Onu che ha approvato una risoluzione di condanna a larghissima maggioranza. «Se il progetto originale dell’Onu avesse tenuto conto di una combinazione di fattori come la popolazione, il Pil (Prodotto interno lordo) e il voto dei singoli Stati, la governance delle Nazioni Unite sarebbe stata molto diversa», sostiene Cristina Manzano, direttrice di «Esglobal» (www.esglobal.org), pubblicazione di analisi globale in lingua spagnola, ed editorialista del quotidiano «El País». «Uno dei maggiori problemi è che l’Onu ha una struttura e degli strumenti operativi che potevano andare bene nel secondo dopoguerra, ma che non sono più validi. L’incapacità dell’Onu di riformarsi la sta portando a un punto morto. L’attuale sistema multilaterale risponde al potere egemonico degli Stati Uniti. Un potere sfidato dal manifesto di Cina e Russia, subito dopo le Olimpiadi invernali di Pechino, nel febbraio di quest’anno».
Un salto nel buio
Secondo Vittorio Emanuele Parsi, professore ordinario di Relazioni internazionali alla facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, e autore del libro Titanic. Naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale (il Mulino), «quando parliamo di riforma dell’Onu dobbiamo fare attenzione al fatto che se poi la riforma non è attuabile o diventa velleitaria, il rischio non è di tornare allo status quo ante, ma di indebolire ulteriormente la forza delle istituzioni: siccome non si riesce a cambiare una cosa, allora pensiamo che sia sempre meno utile. Il principale problema dell’Onu non risiede tanto nel Consiglio di sicurezza e nell’esercizio del potere di veto appannaggio dei cinque membri permanenti, ma sta soprattutto nella personalità dell’attuale segretario generale, António Guterres. Con un altro segretario, probabilmente le cose sarebbero diverse. Abbiamo avuto segretari generali dell’Onu che sono stati capaci di agire per promuovere le riforme».
Di diverso avviso Giampiero Gramaglia, direttore della Scuola di giornalismo di Urbino e consigliere scientifico dell’Istituto affari internazionali. «Il maggiore freno all’efficienza delle Nazioni Unite – osserva – è la clausola del diritto di veto e la stessa formula del Consiglio di sicurezza (cinque membri permanenti e altri a rotazione, ndr) che ne limita la rappresentatività, perché ci sono Paesi che praticamente non entrano mai a farne parte. Occorrerebbe contemperare l’eliminazione della clausola del diritto di veto con un sistema di scelta dei Paesi che entrano nel Consiglio di sicurezza, allargandone la rappresentatività». Sono stati fatti tentativi a più riprese, ma sono sempre falliti. Le grandi potenze non mollano l’osso: «Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia sono membri permanenti, possono esercitare il diritto di veto, e sono potenze nucleari – ricorda Gramaglia –. Più probabile una riforma del meccanismo di selezione degli altri membri del Consiglio di sicurezza, ma anche questa non è mai andata in porto. Si è anche ipotizzato di avere membri permanenti o semi-permanenti senza diritto di veto, includendo uno o più Stati per continente. Ma ogni volta scoppiano gelosie locali. Aumentare il numero dei Paesi membri del Consiglio di sicurezza ne farebbe crescere la rappresentatività, ma ne lascerebbe inalterata l’efficienza». C’è poi il ruolo dell’Assemblea generale dell’Onu. «Da un certo punto di vista funziona meglio per dare gli orientamenti dell’opinione pubblica mondiale. Tuttavia ai voti espressi dall’Assemblea generale non si accompagna un potere esecutivo, e i voti mantengono un significato morale ma poco pratico».
Veto, diritto o privilegio?
Un problema con lo Statuto delle Nazioni Unite è che «non c’è modo di annullare il veto di uno dei membri del Consiglio di sicurezza», osserva dalla California il professor Anthony Pahnke, docente di Relazioni internazionali alla San Francisco State University ed editorialista del quotidiano «Los Angeles Times». Pahnke ha pubblicato articoli, ricerche e saggi sui temi delle organizzazioni internazionali, delle problematiche del lavoro e dell’immigrazione. «Sebbene, in generale, il veto su una mozione, una legge o una risoluzione non sia una cosa negativa – sottolinea – all’Onu, invece, il veto limita il Consiglio di sicurezza in modo critico, come quando deve mantenere la pace. Il veto potrebbe essere visto anche come una cosa positiva, poiché spinge gli Stati a lavorare insieme, e a cercare un compromesso invece di compiere azioni avventate. Ma, senza un modo per scavalcare il veto, questo porta allo stallo. La maggior parte delle legislazioni dei Paesi di tutto il mondo contempla la possibilità, per i rappresentanti eletti, di superare, con super-maggioranze, i veti posti dai rispettivi governi».
Insomma i privilegi si possono aggirare. E poi «chi ha detto che l’abolizione del diritto di veto è impossibile?». A prendere posizione è Magali Chelpi-Den Hamer, ricercatrice dell’Iris, l’Istituto di relazioni internazionali e strategiche di Parigi, uno dei think tank francesi più importanti. Chelpi ha insegnato all’Università di Marsiglia, è consulente di numerose organizzazioni internazionali (Banca mondiale, Unicef, USAid) e si è occupata di problematiche legate a guerre e crisi umanitarie, soprattutto nell’Africa sub-sahariana. «Il 26 aprile scorso – ricorda – l’Assemblea generale dell’Onu ha deciso che convocherà sistematicamente una riunione straordinaria, entro 10 giorni, ogni volta che verrà esercitato il diritto di veto in Consiglio di sicurezza, per discuterne in Assemblea generale. Si tratta di un’espressione concreta di cambiamento all’interno delle Nazioni Unite, e potrebbe rappresentare un importante passo avanti in termini di rapporti di potere tra l’Assemblea generale e il Consiglio di sicurezza. Finora, quest’ultimo era stato incaricato di sorvegliare il mondo». In fondo «sotto i nostri occhi sta avvenendo, proprio in questo momento, la tanto attesa riforma delle Nazioni Unite, innescata dall’emozione suscitata dalla crisi in Ucraina, che è riuscita ad attivare leve di influenza che altre crisi, prima d’ora, non avevano prodotto. Ora la sfida è quella di riuscire a riformare la governance globale rispettando la diversità delle ideologie ed evitando la polarizzazione del mondo».
Chelpi evidenzia che «l’Onu è ciò che ne fanno gli Stati membri, e non il contrario. Dal 1945 il sistema si è evoluto. La Carta delle Nazioni Unite è stata modificata tre volte – nel 1963, 1965 e 1973 – e, date le circostanze attuali, ci si può legittimamente chiedere se i tempi non siano maturi per modificarla una quarta volta». Da più parti, nel vecchio continente, è stato suggerito alla Francia di cedere il suo seggio permanente in Consiglio di sicurezza all’Unione europea affinché questa rafforzi il proprio ruolo al Palazzo di Vetro. «Non credo che oggi sia il momento giusto per cedere il seggio francese all’Ue – afferma Chelpi –. Negli anni a venire, la forza della Francia e il seggio permanente francese in Consiglio di sicurezza sarebbero probabilmente più strategici da utilizzare per rafforzare il ruolo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Dato che il modo di funzionare del Consiglio di sicurezza è sempre più criticato, una strada da percorrere potrebbe essere quella di tornare alle basi del voto – un membro, un voto –lasciando una governance globale».
Oggi, allora, che lezione può trarre l’Onu dall’immobilismo a cui sembra essersi condannata di fronte all’escalation militare in Ucraina? «Noi siamo di fronte alla più grave crisi internazionale dal 1945 a oggi – constata Parsi –. Questa crisi minaccia le fondamenta dell’ordine mondiale. Per i Paesi democratici si tratta di una minaccia esistenziale. Perfino la guerra fredda non era così complicata. Da quando ci sono le Nazioni Unite, c’è un’istituzione che corrisponde, a livello universale, a una membership, a un’appartenenza per scopi generali. Quanto è accaduto in Ucraina non è solo un attacco al sistema politico internazionale, all’ordine economico (gas, petrolio, ecc.). A essere sotto attacco è il sistema istituzionale. La guerra di Putin per annettersi un pezzo di territorio, per cambiare il sistema nel suo complesso con la forza militare, è una cosa che non si vedeva dal 1939. Quello che possiamo perdere o distruggere, e non avere mai più, è il sistema di regole in cui persino i nemici – pensiamo all’ex Unione sovietica durante la guerra fredda – possono parlarsi, riconoscersi e porre alcuni limiti condivisi. I russi vogliono far saltare il sistema. Per questo l’alleanza dell’Europa con gli Stati Uniti è la più logica. Poi, siccome siamo democrazie, resta da chiedersi: riusciremo a mantenere una posizione coesa nei confronti della Russia? Perché, purtroppo, le democrazie, a volte, sono inclini all’appeasement, all’acquiescenza. Pensiamo alla Conferenza di Monaco del 1938 (quando alla Germania fu concesso di annettersi i territori dei Sudeti per scongiurare un nuovo conflitto in Europa, ndr). Poi, però, dovremmo ricordarci che dopo la Conferenza di Monaco del 1938, ci fu, nel 1939, Danzica» e l’invasione della Polonia da parte della Germania. «E non è detto che ci sarebbe stata se nel 1938 si fosse dato a Hitler un segnale diverso».
«Non credo che a livello globale siamo nella stessa posizione di prima della Seconda guerra mondiale – obietta Pahnke –. La coalizione contro la Russia è piuttosto forte. La Nato sembra più unita che mai. Se la Russia si avventurasse oltre l’Ucraina, ci sarebbe una risposta militare da parte della Nato. La Cina gioca un ruolo ambivalente. Bielorussia e Cecenia sostengono la Russia, ma il loro potere è limitato. Ciò che è più probabile è che siamo in una situazione di stallo in cui la Russia cerca una specie di uscita negoziata in modo da poter rivendicare una sorta di vittoria». E qui veniamo a un altro punto cruciale. In Ucraina vincerà Davide o Golia? «L’equilibrio mondiale si basa su dinamiche sottili, e il principio di criminalizzare la violazione territoriale è saldamente ancorato ovunque – fa notare Chelpi –. Se negli ultimi anni le guerre civili hanno avuto la tendenza a sostituire le guerre tra Stati, il conflitto russo-ucraino ci ricorda che l’uso della forza contro uno Stato indipendente per guadagnare spazio territoriale, rimane uno scenario realistico. La specificità, qui, è che è coinvolto un membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, e che il confronto tra Russia e Ucraina non avviene per interposta persona. Non è la prima volta che si verifica una situazione del genere. Ricordiamo che, non molto tempo fa, gli Stati Uniti invasero l’Iraq».
Cartellino rosso
In sede Onu chi ha l’onere di sanzionare un Paese membro che viola lo Statuto? «Le Nazioni Unite non dovrebbero scegliere da che parte stare – nota Chelpi –, a meno che non vengano commesse gravi violazioni. In questo caso si può applicare l’articolo 6 della Carta: “Un membro delle Nazioni Unite che abbia persistentemente violato i principi enunciati nel presente Statuto può essere espulso da parte dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza”. Ma va anche detto che l’esclusione crea frustrazione, e questo ha la ben nota capacità di ravvivare le tensioni». Una possibile risposta per risolvere le dispute internazionali è quella di «impegnarsi in una maggiore azione diplomatica, favorendo più relazioni tra i leader mondiali, più vertici e così via – sostiene Pahnke –. Un altro modo per risolvere le controversie è quello di stabilire relazioni commerciali. I Paesi che commerciano tra loro tendono a non combattersi. Il problema, almeno con la Russia, è che vediamo aziende straniere lasciare quel Paese in seguito alla guerra. Pur essendo una mossa di solidarietà con l’Ucraina, questo non aiuta a facilitare le relazioni. C’è poi il commercio internazionale delle armi, in cui gli Stati Uniti sono tra i leader mondiali nelle vendite. Quest’idea di deterrenza attraverso l’esibizione della forza non aiuta a risolvere i conflitti, ma forse li aggrava. Inoltre, non possiamo dimenticare che anche gli Stati Uniti, a volte, hanno infranto alcune norme del diritto internazionale o almeno le hanno piegate ai propri interessi».
Il timore diffuso è quello che sarà una guerra a ridisegnare il nuovo ordine mondiale. Manzano rileva che «negli ultimi anni le autorità cinesi si sono dimostrate molto interessate alla cosiddetta “Trappola di Tucidide” (lo scenario evocato dal nome dello storico greco, ndr): l’idea che il cambiamento del potere egemone nella Storia sia sempre avvenuto attraverso la guerra. L’escalation dovuta al conflitto in Ucraina, ma anche la retorica aggressiva nell’area dell’Indo-Pacifico, e il crescente confronto tra gli Stati Uniti e i loro alleati, da una parte, e la Cina, dall’altra, possono far temere quello scenario. Tuttavia stiamo assistendo anche a un altro modo più sottile di cambiare l’ordine mondiale, con la continua creazione di istituzioni multilaterali alternative guidate dalla Cina. Questa tendenza, insieme a una crescente frammentazione del panorama multilaterale, mina l’aspirazione all’universalità su cui è stata creata l’Onu. La guerra in Ucraina è anche un tentativo di destabilizzare l’Europa, l’Occidente e tutto il nostro sistema di diritti e libertà. Oltre a questo, mi preoccupa il fatto che siamo entrati in una fase di escalation: non solo in Europa orientale, ma anche in Marocco e in Algeria, nella regione dell’Indo-Pacifico, e con l’annunciato incremento degli armamenti della maggior parte dei Paesi europei. Un mondo più armato è un mondo più pericoloso».
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