Il poeta dei piccoli borghi
Incontro Franco Arminio a Gussago (Brescia), nel cuore della Franciacorta. L’appuntamento è nella suggestiva terrazza giardino di una dimora medievale. C’è una calma gentile che fa da cornice alla nostra intervista. Tra poco più di due ore il poeta paesologo condividerà poesie e riflessioni nell’ambito del Festival del Cammino, manifestazione culturale itinerante che sostiene l’azione dell’ascolto e del camminare lento nella natura come atto di cura del corpo e della mente. Il passo lento, l’ascolto, la riflessione e la condivisione sono anche la cifra dell’incontro con il pubblico di Arminio. I suoi sono versi che paiono disegnati, creano immagini, sanno raccontare tutta la fragilità e la bellezza della vita. Le parole, dice, servono per cantare, narrare, incantare il mondo.
Msa. Arminio, quando ha iniziato a scrivere poesie?
Arminio. Ho iniziato molto presto, avevo 15-16 anni. Ho sempre scritto molto, ho scritto ininterrottamente versi, prose, articoli. Posso dire che la scrittura è sempre stata la mia compagna di strada.
La poesia ha bisogno di lentezza e silenzio, ma il mondo è in perenne corsa. Va ancora di moda la poesia?
È sicuramente tra gli strumenti umani che, in questo tempo, non è caduto in disuso. Rispetto al passato c’è un numero maggiore di persone che cerca nella poesia le risposte alle proprie domande. La poesia è una cosa antica, ha una sua funzione profonda.
Per una lunga parte della sua vita è stato un maestro elementare. Come ha visto cambiare le generazioni?
Più che il cambiamento delle generazioni, nella scuola ho notato l’aumento della burocrazia. Ciò è andato a discapito di quello che reputo essenziale e cioè la relazione dell’insegnante con gli alunni e le alunne. A un certo punto nella scuola la cornice è diventata più importante del quadro. È come se agli insegnanti fosse stata sottratta quella quota di energia che dovevano riservare agli studenti. Entrare in una scuola e parlare con la classe è un gesto poetico importante che richiede molta energia interiore. Tanti insegnanti arrivano in classe sfiniti perché sono logorati dalle carte, che ai fini educativi non servono a molto. Li capisco, perché io stesso quando alla sera inizio un incontro, devo essere nelle giuste condizioni per lavorare. È importante!
Nella raccolta di poesie Cedi la strada agli alberi, lei scrive «Io sono la parte invisibile del mio sguardo l’entroterra dei miei occhi».
Parlo spesso dello sguardo. Anche oggi ho scritto una poesia su questo tema, in treno. Per me lo sguardo è centrale. Se dovessi dire in una parola che cosa deve fare un essere umano nel mondo, direi: guardare! È un gesto che possiamo fare in qualsiasi momento. Se hai gli occhi per vedere non c’è un posto dove non ci sia qualcosa da guardare… che non possa essere guardato. Se guardo, per esempio, l’antica pietra qui accanto, il mio pensiero corre subito al Medioevo. Guardare è una risorsa infinita per l’umano. Se guardate, le cose sono delle piccole rivelazioni che riattivano la nostra vitalità. Abbiamo bisogno di quei piccoli scatti interiori, è come se ci dovessimo ricaricare di energia con lo sguardo e con lo stupore che nasce dalla consapevolezza di essere qui, vivi.
Lei lavora con le parole. Quale potere attribuisce loro?
La lingua non è un accessorio tecnico, è la forma dell’umano. Le persone si vestono bene, mangiano bene, ma trascurano la lingua. Dovremmo prestare più attenzione a parlare bene, alle buone letture. Bisognerebbe ricordare a tutti l’importanza della parola. Bisognerebbe ricordare a tutti di pronunciare solo le parole necessarie, perché esse sono intimamente collegate al corpo, salgono dal corpo, escono dal corpo. Una parola non detta ci può ammalare, ma una parola detta bene ci può guarire. Può essere veleno o cura, la parola. Credo che in questo momento storico siamo invasi dalla sciatteria comunicativa. Si parla tanto (non si è mai parlato tanto come oggi) ma si parla molto male. Si sfruttano le parole per scatenare piccole inutili guerre dell’io, giudicare, belligerare. Ascoltando la sintassi degli anziani, invece, trovo che le loro parole siano distillate. Si raccontano storie sulla panchina, dialogano. Sanno come farsi compagnia con la parola e sono più consapevoli della forza della parola di quanto non lo siano le giovani generazioni. Purtroppo, molto spesso, più si scende con l’età più le parole sono pronunciate a caso. Ma la parola va scelta, perché serve per cantare e narrare, per incantare il mondo!
Molte storie della tradizione descrivono la capacità delle parole di creare la realtà.
Ogni cosa è animata dalla vita. E noi poeti non possiamo fare a meno di stupirci di fronte a tutta la bellezza che ci circonda. Siamo materia, siamo nel respiro dei viventi, siamo frammenti di un’energia divina. Siamo come una casa a tre piani ed è davvero bello abitarli tutti.
Un grande poeta e premio Nobel afferma che la poesia è una terribile scuola di insicurezza.
Proprio oggi mi hanno chiesto se avessi dei dubbi riguardo a una poesia che avevo appena scritto. Ebbene, scrivo sempre nel dubbio che quell’idea o quei versi di una poesia possano o non possano stare in equilibrio, il che rispecchia il dubbio riguardo al mio rimanere in equilibrio nel mondo. La poesia è una scuola di perplessità, essa chiede di fare la manutenzione alla propria perplessità. Nel momento in cui la perplessità cessa, e ci si rifugia nella certezza del proprio lavoro, ci si irrigidisce, si diventa come una statua di cemento e proprio lì la poesia se ne va, ci abbandona.
Qual è il compito del poeta?
Il poeta non ha una precisa funzione sociale. La sua funzione nella società è quella di fare quelle cose che gli altri non si possono permettere il lusso di fare sempre, perché devono fare quel lavoro o quell’altro. La vita non è la funzione che svolgi, ma è l’avventura in cui sei immerso, tua e di tutti gli altri.
È una fresca sera di giugno. Arminio inizia a leggere. Alle sue spalle il tramonto sulle colline ruba lentamente la luce al giorno. Restituisce al cielo un rosso fuoco che si scioglie prima nell’arancio poi nell’azzurro. Le parole incantano quanto il cielo stellato che avanza all’orizzonte. Siamo immersi nel silenzio. Forse è anche questo il grande potere della poesia: «Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione. Attenzione a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza». (Cedi la strada agli alberi, Chiarelettere, 2017).
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