Il seme e il Natale
«Ecco. Il seminatore uscì a seminare» (Mt. 13,1). Gesù parla in parabole e lo fa perché le immagini che usa sono immediatamente parlanti. Prese dalla vita quotidiana di chi gli sta intorno, creano un riconoscimento anche affettivo nei confronti delle situazioni raccontate. Nel tempo molte di queste immagini hanno perso l’energia delle origini (zizzania, pecore, vergini sagge e stolte, fattore infedele, talenti...) e richiedono un accorto lavoro di traduzione che i commentatori meravigliosamente fanno, anche su queste pagine. Ma la metafora del seme e del seminatore resta potente. Tutti, anche chi sta in un appartamento al trentaduesimo piano di un quartiere satellite, sa che cos’è un seme e intuisce il miracolo della nascita. A scuola viene proposto il suo germogliare, perché è facile, basta un piccolo fagiolo bianco o rosso e un po’ di cotone e in poco tempo il bicchiere trabocca di steli verde trasparente e foglie. Bellissimo. E ciascuno di noi è più o meno consapevole che dal seminare dipende letteralmente la nostra vita.
Eppure anche questa immagine richiede, come dire, un competente allargamento dello sguardo. Dentro l’atto del seminare il contadino sa che è contenuto un lungo tempo di preparazione della terra, un ancor più lungo tempo di rotazione delle colture, una sapienza nel cogliere il momento giusto, in parte studiata sui manuali e in parte acquisita per trasmissione famigliare o per apprendistato, e poi c’è un lavoro, fatto in prima persona o ereditato, di gestione del territorio, drenaggio del terreno, messa in sicurezza degli argini, predisposizione di sistemi di irrigazione. Sa però anche che, malgrado tutto questo, c’è un imponderabile, che molto moltissimo abbiamo imparato a controllare, ma non del tutto. Deve esserci il sole giusto, la pioggia non troppa, l’umidità non troppa.
«Per quanto si faccia – ha detto un giorno un giovane nipote che ha scelto di fare il contadino come il padre e il nonno, dopo aver studiato la facoltà giusta – noi contadini sappiamo che il nostro bene sta sotto il cielo». È un’espressione piena di saggezza. Si può essere saggi anche da giovani. Vuol dire che seminare è sempre un atto di fede. Che il tempo sia clemente. Che gli argini tengano, che la grandine risparmi il raccolto. Questo è sempre accaduto, anzi, oggi possiamo essere più fortunati, perché siamo capaci di prevedere l’imprevedibile, ad esempio proteggendo dalla grandine o coltivando in serra. Ma c’è un imprevedibile vero, rispetto al quale non servono le reti protettive, ed è la cieca capacità di devastazione della terra che la furia avida degli uomini ha messo in campo per arricchirsi di più e ancora di più. Ci si sorprende a ogni disastro ambientale che ci sia chi davvero crede che siamo padroni in casa nostra, quando in realtà siamo custodi di beni ricevuti e certamente li lasceremo tutti qui se non li abbiamo distrutti prima.
Il Natale è l’atto di fiducia più impensabile che la storia abbia conosciuto. Dio che si affida nella forma di un bambino in mille modi vulnerabile. Ogni anno riproposto dal calendario liturgico come possibilità di rinascere, noi, alla nostra speranza. È evidente che non possiamo rinascere nel senso di riavviare il nastro, riavere la perfezione dell’origine, quella che a volte possiamo solo intuire nell’abbandono assoluto, divino, di un bambino che dorme in braccio a noi, o nella sua culla perfettamente al sicuro, protetto da chi lo ama. Ma la fede ci dà le energie per tutto il bene possibile. Ci vuole il coraggio della fede per uscire a seminare oggi. In Dio, certamente, e anche nell’umanità.
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