Jacovitti, china e umorismo
«Stare nella realtà è possibile solo se riesco a riderne» diceva Jacovitti, uno dei più grandi artisti del fumetto. Nato a Termoli (Campobasso) nel 1923, per oltre cinquant’anni ha saputo creare racconti esilaranti, gag, avventure surreali, inventando personaggi incredibili, di una comicità originale e disarmante, a partire dal 1940 con l’esperienza al periodico «Il Vittorioso». Negli anni Settanta del secolo scorso, Jacovitti ha collaborato anche con il «MeRa», il nostro «Messaggero dei Ragazzi», con le strisce di Giuseppe. Il suo allampanato Cocco Bill, parodia del cowboy che beve camomilla invece di whiskey, ha avuto fortuna anche dopo la sua morte, grazie al talento di Luca Salvagno, già suo collaboratore e tra le punte di diamante del «MeRa».
Jacovitti collaborò anche con il «Corriere dei Piccoli» e con il «Corriere dei Ragazzi», e disegnò le vignette del «Diario Vitt» che ha accompagnato, per più di trent’anni, generazioni di giovani studenti italiani. Dal suo pennino intinto nella boccetta di china, oltre a Cocco Bill sono usciti, tra moltissimi altri, Zorry Kid, Jack Mandolino, Tom Ficcanaso, irresistibili parodie di miti del cinema e della televisione, e di personaggi della vita reale «con l’innovativa rottura della quarta parete, per cui i personaggi in difficoltà, nelle sue storie, possono rivolgersi direttamente ai lettori o al loro creatore». I suoi fumetti sono usciti in Giappone dove lo chiamano «Benitò», uno dei suoi nomi di battesimo, poiché risulta ostica la pronuncia del cognome Jacovitti. Ma è stato pubblicato anche in Spagna, Francia, Olanda, Grecia, Cina e Argentina.
Alla figura e all’opera del fumettista molisano rendono omaggio, nel centenario della nascita, due mostre imperdibili: «Tutte le follie di Jac!» allestita al MACTE, il Museo di Arte Contemporanea di Termoli, e «Jacovittissimevolmente» al MAXXI, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo a Roma. Se l’America ha dato i natali a Walt Disney, l’Italia ha avuto Jacovitti, il Fellini dei comics. Non a caso con l’acclamato regista di Rimini, aveva condiviso la stessa genitura artistica. Entrambi avevano mosso i primi passi della loro carriera con le tavole illustrate. Poi Fellini passò al cinema. «Jacovitti e Fellini si sono frequentati, si ammiravano e si stimavano l’un l’altro – rivela Luca Raffaelli, curatore della mostra di Termoli –. C’è stato un rapporto di vicinanza tra i due. Sicuramente Jacovitti vedeva i film di Fellini, e Fellini leggeva i fumetti di Jacovitti».
Un «ragazzo terribile»
Le tavole di Jacovitti fanno pensare a un uomo-artista simpatico, ironico e giocherellone. E lo era davvero «a parte i periodi in cui doveva pagare le tasse, cioè maggio e novembre – precisa sua figlia Silvia – quando teneva il muso per dieci giorni. S’incupiva perché vedeva le tasse come un’ingiustizia. Per il resto era come avere in casa un ragazzino. Era giocherellone anche quando viveva, come tutti, i suoi momenti di tristezza e di preoccupazione. Faceva scherzi. Io non l’ho mai visto come un padre, ma come un fratello minore, un adolescente di 13 o 14 anni che qualche volta dice cose un po’ stupide. Capitava che mi chiudesse in uno sgabuzzino che avevamo a casa, lasciandomi al buio. E quando io mi mettevo a piangere, lui scoppiava a ridere, e poi apriva la porta dello sgabuzzino. Proprio come un fratello che fa i dispetti a sua sorella».
Per Jacovitti, l’umorismo, sia nei fumetti che nella vita reale, era diventato la panacea contro tutti i mali. «E quanto più le cose erano faticose, tanto più cercava di ridere o di farci ridere», ribadisce Silvia. Si spostava di rado. Una passeggiata di venti minuti ogni giorno intorno al quartiere. La sera un po’ di televisione dopocena. Disegnare era un’ossessione, una «malattia». «Lui si chiudeva nel suo studio dalla mattina alla sera. Disegnava anche quando non aveva dei lavori commissionati – rammenta Silvia –. Andavamo al cinema qualche volta. Ricordo il film 2001: Odissea nello spazio. Stanley Kubrick gli piaceva tantissimo. Andava al Teatro Sistina a vedere le commedie di Eduardo De Filippo. E poi i musical di Garinei e Giovannini che gli commissionarono anche un lavoro per una scenografia. Raramente andava a mangiare una pizza con qualcuno».
Jacovitti si recava qualche volta a Milano dal suo agente Vezio Melegari, anch’egli fumettista. «Parlavano cinque minuti di lavoro. Il resto del tempo lo spendevano per andare al cinema a vedere un film western, e poi a mangiare insieme – aggiunge Silvia, sorridendo –. È andato in Spagna in viaggio di nozze e ha visto tre città. Quando ero piccola, abbiamo fatto una settimana a Parigi. Lui aveva bisogno di stare nel suo mondo, quello dei suoi personaggi». Tra queste rare uscite, anche «le feste con i suoi colleghi del “Vittorioso”, con Gianni De Luca, Ruggero Giovannini. Scattava anche foto in cui appariva buffo», racconta Raffaelli.
A differenza della grande mostra antologica al MAXXI di Roma, quella al MACTE di Termoli esplora l’intera gamma stilistica di Jacovitti, gli aspetti unici e particolari, l’affollamento delle sue tavole sature di personaggi, salami, insetti, vermi, pettini, matite, moncherini, corpi affettati che pulsano di vita propria. Eppure non c’è nulla di splatter. «Possiamo ipotizzare che tutto ciò che di tragico lui riversava in forma umoristica nelle sue tavole, fosse anche l’esito dei suoi ricordi legati alla Seconda guerra mondiale, alla dura prigionia in campo di concentramento dopo essere stato catturato dai tedeschi, e poi alla fuga – osserva Raffaelli –. Lui rielaborava tutto quel dolore, riuscendo a trasformare anche la tragedia in un atto umoristico. I salami, i vermi, le lische di pesce, ecc. sono dei riempitivi che lui spiegava come “pause della creatività”. Jacovitti non andava mai in vacanza. Lavorare era la sua gioia, e questa gioia era il rifugio di Jacovitti. Come capita anche ad altri artisti, questo rifugio trasmette loro una sorta di stato di benessere».
Non va poi dimenticato il metodo di lavoro di Jacovitti. «Era unico – rimarca Raffaelli – poiché è impossibile che un autore realizzi una tavola di personaggi, avventure, situazioni, gag, tutto sgorgato da un mondo interiore, direttamente a china, senza una sceneggiatura, senza appuntarsi dei dialoghi, e senza una traccia a matita». Eppure Jacovitti lo faceva. E se si entrava nel suo studio, che succedeva? «Intanto bisognava bussare sempre, non perché si arrabbiasse, quanto piuttosto perché si deconcentrava se si entrava all’improvviso – ricorda Silvia –. Mia madre, Floriana Jodice, bussava quando gli portava il caffé. E mi ricordo sempre la risposta di papà: “Avanti!”. Sono certa del grande amore che nutriva per mia madre e per me, anche se stava sempre lì a disegnare. Ci voleva bene e aveva un modo tutto suo di comunicarcelo. Appena completava un disegno o terminava un lavoro, per prima cosa ci faceva vedere le sue tavole bellissime disegnate a mano libera. Poi le mandava al suo colorista, Alfonso Castellari, e quando tornavano colorate erano meravigliose, e ce le faceva vedere di nuovo».
La gioia di un clown
«Papà era di una semplicità unica, di un’umiltà incredibile. Certe volte anche troppo – ribadisce la figlia Silvia –. Ripeteva: “Io faccio il mio lavoro. Sono un umorista”. Una volta ci disse: “Fui, sono e sarò sempre un clown”». Jacovitti giocava col suo mondo, fantastico e irriverente, con i suoi personaggi, ma guai a toccarglieli. Aveva bisogno di una completa libertà per realizzare le sue tavole. «Se qualcuno limitava la sua libertà o cominciava a dirgli: “Questo non lo puoi fare”, “questo è meglio non dirlo”, “quest’altro è difficile da capire”, lui si bloccava – riconosce Raffaelli. – C’è uno psicanalista che ha definito queste libertà come flussi. Sono le parentesi di gioia nella vita, di flusso appunto, che fanno riferimento, secondo me, ai momenti di gioia che si sono vissuti da bambini giocando. Quando un bambino si mette a fantasticare su qualcosa creando il suo mondo, entra in uno di questi flussi che non devono essere bloccati per non interrompere questa gioia».
Cosa ispirava Jacovitti nella creazione dei suoi personaggi? «Osservava la gente, ne studiava i movimenti, le espressioni, le caratteristiche, parenti compresi – rivela Raffaelli –. Per esempio, il personaggio della Signora Carlomagno che insieme a Cocco Bill era uno dei suoi preferiti, era ispirato a una sua parente. Anche Giorgio Giorgio detto Giorgio era ispirato a un suo zio». Poi guardava la televisione e sicuramente trasse spunto dalla serie di Zorro per farne una parodia in Zorry Kid. «Siamo tutti rappresentati nei suoi disegni – conferma Silvia –. Quando portava me e mia madre al mare in Versilia, a Vittoria Apuana (Lucca), lui stava sempre a disegnare. Poi si regalava mezz’ora al bar. Sorseggiava un bell’aperitivo Negroni e si metteva a osservare la gente. Gli piacevano le “panoramiche”, cioè enormi tavole zeppe di personaggi e oggetti. Il messaggio che mi ha lasciato è di non prendersi troppo sul serio, ma sempre un po’ in giro. Essere ironici prima con se stessi e poi con gli altri».
C’è anche uno Jacovitti inedito. È ancora Silvia a rivelarcelo: «Ogni anno il parroco veniva da noi e gli segnalava questo o quest’altro ragazzo che non aveva le risorse per continuare a studiare. Sapesse quanti giovani mio padre ha aiutato economicamente ad arrivare alla laurea! Un modo per tenere viva questa sua ammirevole opera benefica è la borsa di studio intitolata a lui. Viene assegnata a un ragazzo del Liceo artistico “Benito Jacovitti” di Termoli che è bravo, ma non ha le possibilità economiche per proseguire gli studi».
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