La saggezza dei vecchi proverbi
«Rosso di sera bel tempo si spera». Chi non ha mai utilizzato questa espressione, estasiato di fronte a un tramonto dai colori cangianti? E così anche per altri eventi, non solo atmosferici, legati a una saggezza «popolare», dalle radici antiche, di cui i proverbi (o paremie, dal nome greco) sono frutto. Per millenni le culture occidentali sono state «proverbiali». Hanno pensato in modo «proverbiale». Si sono espresse «proverbialmente». «Perché pensare e parlare per proverbi, o elaborare proverbialmente la propria espressione, era connaturato a quelle culture – spiega il professor Emanuele Lelli in Proverbi, sentenze e massime di saggezza in Grecia e a Roma. Tutte le raccolte da Pitagora all’Umanesimo, edito da Bompiani –. Proverbi e sentenze nati secoli prima si adattarono a nuove culture e a nuovi popoli, in ragione della loro forza espressiva nonché a un continuo riuso letterario».
Ma che cos’è un proverbio? E a che cosa si deve la sua fortuna millenaria? «I proverbi ci parlano del nostro passato più e meglio di qualsiasi enciclopedia e di qualsiasi libro di storia; e non sono soltanto regole di vita, ma contengono anche immagini folgoranti che potrebbero essere uscite dalla penna di un grande scrittore» affermava lo scrittore Sebastiano Vassalli, genovese di nascita e novarese di adozione. Per Daniele Baglioni, professore di Linguistica italiana al Dipartimento di studi umanistici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, la fortuna dei proverbi risiede nel loro essere glocal, vale a dire globali e locali al contempo. «Spesso i proverbi vengono utilizzati nella forma dialettale, come espressione tipica della lingua, di tradizioni e di saperi popolari di una comunità – spiega –. Al tempo stesso, riescono a non conoscere confini di tempo e di spazio. Possiamo ritrovare lo stesso modo di dire in Italia, come in Francia o in Inghilterra, o in altri Paesi. Qualche esempio? “Quel che è fatto è fatto” lo troviamo in francese (Ce qui est fait est fait), in inglese (What’s done is done: Macbeth di Shakespeare, atto terzo, scena seconda) a dimostrazione di un patrimonio europeo comune».
In Italia un monumentale lavoro è stato realizzato da due docenti dell’università di Torino, Lorenzo Massobrio e Valter Boggione. Nel loro Dizionario dei proverbi. I proverbi italiani organizzati per temi hanno elencato ben trentamila detti raccolti nelle regioni italiane e tramandati dalle fonti letterarie. Un repertorio dal quale si evince che, perché un proverbio abbia fortuna, deve essere comprensibile e avere un contenuto rilevante, che valga la pena di essere tenuto ben presente. «La prerogativa è possedere un valore comune, facilmente riconoscibile – prosegue il linguista –. Un significato forte che si coglie con immediatezza. Per quanto riguarda la forma, dovrà rimanere impresso e, quindi, subito memorizzabile. In questa funzione rivestono un ruolo chiave le rime, le isometrie (due versi dello stesso numero di sillabe), i giochi di parole ("il troppo stroppia", per esempio). Meglio ancora se utilizza una metafora ("il diavolo fa le pentole ma non i coperchi"), quindi con elementi paraletterari e parapoetici».
Popolari o dotti?
La percezione diffusa è, del resto, quella secondo cui i proverbi sono il deposito di una saggezza antica, tradizionale, popolare. «Questa idea – prosegue Baglioni – è vera solo in parte. Molte paremie e modi di dire si possono trovare, ad esempio, in testi letterari e filosofici. Tra i tanti e più comuni, la massima: “La virtù sta nel mezzo”, quel In medio stat virtus che trae origine dall’Etica Nicomachea di Aristotele ed esprime l’ideale greco della misura, dell’equilibrio. La virtù sta nel mezzo di due estremi che bisogna comunque evitare. Lo stesso concetto sarà poi ripreso dalla Scolastica medievale».
Altri esempi vengono dalla letteratura: è il caso di «Cosa fatta capo ha», che sta a significare che quando si è fatta una cosa non si può più tornare indietro, si deve chiudere e completare l’opera senza indugiare o soffermarsi in discussioni su quanto è ormai accaduto. «È uno dei primi proverbi che si riscontrano in letteratura – aggiunge Baglioni –. Risale al Medioevo ed è diffuso ancora oggi, a dimostrazione di quanto il repertorio paremiologico possa durare nel tempo. Lo si trova nell’Inferno dantesco (Canto XXVIII, 106-111), attribuito (attribuzione confermata da varie testimonianze, tra cui quella di Giovanni Villani nella sua Nova Cronica) a Mosca dei Lamberti, il quale pronunciò tale frase nel tentativo di indurre i titubanti Amidei e consorti a vendicarsi di Buondelmonte, uccidendolo. Vendetta che fu causa della divisione tra i cittadini di Firenze, e dalla quale avrebbe avuto origine la divisione tra Guelfi e Ghibellini.
Possiamo, allora, leggere due tradizioni legate alla nascita e all’uso dei proverbi: la prima è quella contadina, collegata alle stagioni o a fenomeni atmosferici (è il caso di «Rosso di sera, bel tempo si spera»); la seconda, invece, ha un carattere più strettamene etico e didascalico, trae origine sempre dai classici (Melius abundare quam deficere; Risus abundat in ore stultorum) e viene utilizzata come una sorta di insegnamento».
Oggi la creazione dei proverbi si è interrotta. «Hanno continuato ad avere una produzione spontanea sino ad alcuni decenni fa – afferma il docente –. Lo dimostra una massima come “Donna al volante pericolo costante”, per via del riferimento all’automobile, il che, ovviamente, lo situa come non anteriore al Novecento. Tuttavia, non necessariamente i proverbi più recenti sono quelli più usati. Nel caso appena citato, ad esempio, il messaggio fortemente sessista è responsabile della sua attuale obsolescenza (come altri proverbi che presentano la figura femminile come nociva o subalterna all’uomo: “Mogli e buoi dei paesi tuoi”, “Chi dice donna dice danno”, e così via). Di fatto, l’esprimersi per proverbi non è più una caratteristica della nostra società e le massime che sopravvivono lo fanno in virtù del proprio valore universale, non di un adeguamento ai tempi».
E allora dar conto, nel terzo millennio, dello straordinario e affascinante mondo della sapienza diffusa, antica e medievale è, ancora secondo il professor Emanuele Lelli, «un invito storico e culturale a riflettere sui nostri modi di pensare e comunicare, sul rapporto tra passato e presente e su come si trasforma, oggi sempre più velocemente, la nostra identità culturale».
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