Video felicità
Hanno provato in molti a definirla. Per alcuni è un’utopia, per altri coincide con la capacità di sapersi accontentare. «La felicità è un dono» scriveva Charles Dickens. «La felicità sono attimi» sentenziava, dal canto suo, Alda Merini. Attimi che illuminano la quotidianità, come stelle cadenti nella notte. Ad «accenderli» a volte basta poco. L’abbraccio di un amico, il sorriso di un bambino, una passeggiata all’aria aperta… E, perché no, anche la proiezione di un video! «Il video rende felici perché lo possono fare tutti» ha detto il pioniere coreano della videoarte Nam June Paik. Si è ispirata proprio a questa definizione Valentina Valentini per curare la mostra «Il video rende felici. Videoarte in Italia». Allestito al Palazzo delle Esposizioni e alla Galleria d’Arte Moderna di Roma fino al 4 settembre, questo percorso, frutto della collaborazione tra ministero della Cultura, Sovrintendenza capitolina e Azienda speciale Palaexpo, raccoglie venti installazioni, complete di disegni preparatori, appunti, schizzi, bozzetti. Opere dalla fine degli anni ’60 ai giorni nostri, cui si aggiungono trecentosessanta video e film d’artista, tredici rassegne, per un totale di oltre ottanta ore di proiezione e più di cento artisti coinvolti.
«Al suo apparire negli anni Settanta, il video ha svegliato tante utopie – spiega Valentini –: l’utopia d’indipendenza dai mass media, l’utopia della sperimentazione dell’immagine in movimento e l’utopia della partecipazione per accedere a una dimensione pubblica e indipendente». A prescindere dal formato – monocanale, multimediale, interattivo…– con cui si presenta al fruitore, dunque. «Il video è tempo reale – continua Valentini –. Ma è anche la camera del pensiero e il luogo dell’intimità. Come una pagina di diario, ci riporta a una dimensione autobiografica in grado di farci dialogare con chi non c’è più». Da qui la sua grande capacità di coinvolgere il pubblico. A Palazzo delle Esposizioni, un’opera in particolare sottolinea questo vincolo tra arte e fruitore.
Realizzato per la prima volta nel 1995 dallo Studio Azzurro, Coro è un ambiente sensibile creato con quattro videoproiettori, sedici programmi video e quattro speaker audio. Ma per capire davvero di che cosa stiamo parlando serve toccare letteralmente con mano, anzi, con piede. Buio in sala. Mentre un tappeto di corpi seminudi riposa a terra, tutt’intorno si stringono i primi visitatori della giornata. Proprio a loro è richiesto di interagire con l’opera calpestandola. Più le scarpe si muovono sopra la proiezione più i corpi reagiscono, strisciano, rotolano e tornano a vegetare. Il pubblico intanto «si scalda» e si emoziona. Alcuni camminano sul tappeto in punta di piedi. Altri, divertiti, calpestano con determinazione. Solo i bambini, però, riescono ad abbattere il confine tra reale e virtuale, stendendosi a terra al fianco dei corpi pallidi. Ogni tocco, ogni sfioramento genera suoni e parole. Dalle interazioni si leva piano un coro che riempie lo spazio. Spetta al pubblico-attore interrompere questo dialogo, allontanandosi dal tappeto e proseguendo la visita.
Reale e virtuale
Dai corpi dormienti del collettivo Studio Azzurro, passiamo a un altro tipo di sonno. In No More Sleep No More Danilo Correale ci invita a sdraiarci su una chaise-longue e a chiudere gli occhi mentre, su un maxi schermo, scorrono immagini astratte, accompagnate dalle voci di accademici e studiosi interpellati dall’artista su sonno e veglia. «Il mio tentativo – spiega Correale – è di stimolare una domanda nello spettatore. Porre un letto all’interno di uno spazio espositivo significa proporre un’alternativa alla costante veglia e messa a produzione di ogni attività della vita. Anche il visitatore di una mostra è parte di una macchina che consuma. Cosa succederebbe se per un attimo decidessimo tutti di dormire, anziché produrre e consumare?». Un po’ di inerzia, insomma, non solo non fa male, ma anzi, se ben gestita, aiuta a riflettere e ad agire consapevolmente.
Non c’è azione senza riflessione, sembra ricordarci Rosa Barba con Western round table. Per la sua opera, l’artista italo-tedesca ha sistemato nell’angolo di una stanza due proiettori che, uno di fronte all’altro, lanciano un fascio di luce sulla parete opposta, proiettando così la silhouette del «vicino» e producendo al contempo dei suoni. Ispirata alla conferenza del 1949 nel deserto del Mojave, dove artisti come Duchamp e Frank Lloyd Wright, ma anche musicisti, scienziati, filosofi e architetti, si incontrarono per parlare di pratiche artistiche contemporanee, questa installazione è un monito a mettersi in ascolto e a dialogare. Lezione quanto mai utile in un periodo storico di emergenze e cambiamenti come il nostro.
Dopo il tuffo nel 1949, un altro salto nel passato. Era il 1978 quando Michele Sambin si dedicò al videoloop, un dispositivo analogico che consentiva di riprendere e proiettare in tempo reale immagini in movimento, sovrapponendole sullo stesso schermo. L’artista lo utilizzò nell’installazione Il tempo consuma, di cui in mostra a Roma è visibile una versione digitale. Posizionatosi tra telecamera e schermo, l’artista oscillava come un metronomo, ripetendo: «Il tempo consuma le immagini, il tempo consuma i suoni». Sul monitor le forme si sovrapponevano, diventando astratte. «Grazie al video ho potuto relazionarmi con un me stesso di 44 anni fa – commenta Sambin –. Per me il video è vita aumentata. E uno strumento che dà ancora più vita non può che produrre felicità».
Gioca da sempre con il tempo anche Bill Viola, pioniere della videoarte, che ha mosso i primi passi a Firenze, nella casa di produzione video art/tapes/22. Alla Galleria d’Arte Moderna di Roma l’artista è presente con Il vapore (1975), video-installazione ispirata al poeta persiano Jalai al-Din Rumi e alla sua Storia IV di Masnavi. Ancora una volta – parole di Viola – «tempo presente e tempo passato coesistono simultaneamente» in questa sovrapposizione di scene. Protagoniste: una pentola in cui stanno bollendo delle foglie di eucalipto e – su uno schermo di fronte – la stessa pentola riempita d’acqua dall’artista, mentre il rumore prodotto risuona intorno.
Dal gorgoglio dell’acqua alle note di una danza asiatica il passo è breve. Siamo in una sala del Palazzo Valguarnera-Gangi di Palermo. La stessa sala dove Luchino Visconti girò la scena del ballo in Il Gattopardo. Questa volta, però, a danzare non sono nobildonne siciliane con i loro accompagnatori. Tra movimenti lenti e sguardi misteriosi, nella location si esibiscono donne tamil (minoranza originaria dello Stato del Tamil Nadu nel Sud-est dell’India e del Nord-est dello Sri Lanka). A suggerire il nome di questo video (Blind mirrors, 2019) del collettivo Masbedo, un aneddoto riferito proprio alle riprese del film girato nel 1962. I Blind mirrors sarebbero infatti gli specchi antichi che il regista offuscò nel tentativo di renderli più brillanti con l’aiuto di lampade al tungsteno. Cinquantasette anni dopo, questo effetto collaterale ha dato origine a una nuova esperienza artistica.
Di imprevisti e riutilizzi è pieno il mondo della videoarte. Ne sa qualcosa Donato Piccolo, che per il suo Video machine mobile (2022), ha recuperato un televisore degli anni ’70 e lo ha trasformato in una sorta di «granchio robotico» capace di interagire col pubblico e con l’ambiente. «Al suo interno – spiega l’artista – è stato inserito un codice di intelligenza artificiale. Ciò nonostante l’opera risulta “mancante”. Perché, in realtà, è solo un agglomerato di pensieri che l’uomo trasferisce alla macchina». Da qui il ruolo della tecnologia quale alleata dell’ingegno. «La tecnologia è sempre stata parte dell’arte – conclude Piccolo –. E, di conseguenza, l’artista è sempre stato un inventore legato alla tecnologia». Basti pensare al leone meccanico di Leonardo da Vinci, costruito nel 1515 e inviato a Lione per accogliere il re di Francia Francesco I. O alla tecnica argilla-gesso-marmo messa a punto da Antonio Canova per le sue sculture sul finire del XVIII secolo. Gli anni passano, le tecnologie si evolvono, ma l’emozione – o meglio, la felicità – che l’arte sa generare non cambia mai.
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