L’Amico del Deserto
Siamo numerosi al centro culturale milanese Ambrosianeum, la sera del 16 maggio, per ascoltare Pablo d’Ors, il religioso claretiano madrileno punto di riferimento, nel mondo cattolico, nell’ambito delle pratiche meditative. Il programma dice che presenterà il suo ultimo libro uscito in Italia, I contemplativi, (Vita e Pensiero). Ma, invece, d’Ors decide di dedicare quell’ora e mezza o poco più a dialogare con i presenti. Il tempo vola, le domande poste sono anche difficili, scomode. Ma lui risponde a tutti con una semplicità e una profondità disarmanti e sempre con un immancabile sorriso. Il medesimo che riserverà a me, nel corso di questa intervista.
Msa. Don Pablo, lei si è definito uno scrittore, cioè un uomo delle parole; un meditatore, cioè un uomo del silenzio; un prete, un uomo del rito. Ed è stato pure un missionario e un camminatore. Chi è, dunque, Pablo d’Ors?
d’Ors. Un figlio di Dio. Mi sembra questa la definizione più bella, perché non rimane sulle cose che fai, ma su ciò che sei. Qualche tempo fa, a un’analoga domanda avevo risposto: «Sono un figlio di Dio e un peccatore». Oggi non mi definisco più «un peccatore», ma non perché non lo sia, bensì perché dobbiamo sempre ricordarci che il nostro rapporto con la luce non ha la stessa importanza del rapporto con il buio. È la luce che ci definisce, non il buio. Allora, in definitiva, direi che sono una persona affascinata da Cristo e dalla luce e cerco di vivere in modo luminoso.
In apertura di uno dei suoi libri più famosi, Biografia della luce (Vita e Pensiero, 2021), lei ha scritto, citando Jung, che Gesù Cristo è archetipo di ogni essere umano, perché tutto quello che è avvenuto in Gesù Cristo avviene sempre e ovunque. Nasce da questa consapevolezza la sua decisione di donare la vita a Gesù Cristo?
La mia vocazione è nata nel 1982, quando avevo 19 anni. Nel mio libro Entusiasmo (Vita e Pensiero, 2018), racconto come ciò è avvenuto. In sintesi: io sono stato sin da bambino abbastanza devoto. Intendiamoci: mi piaceva giocare e fare tutto quello che fa un bambino, ma avevo però chiara in me una spinta spirituale, religiosa. Poi, attorno ai 20 anni, questa attitudine è diventata vocazione vera e propria e ho scelto di diventare sacerdote. Devo ammettere che inizialmente ero attratto soprattutto dalla figura di Gesù, con il quale sentivo di avere un profondo rapporto personale, poi, con il tempo, ho approfondito anche il mio rapporto con Dio Padre e, solo negli ultimi anni, con lo Spirito Santo.
Lei ha affermato che una religione che non serve alla vita è una religione vuota. Ma che cos’è per lei la religione e che cos’è, invece, la fede?
Direi che la religione è essenzialmente un fatto culturale, è l’espressione culturale più forte nella storia dell’umanità per «regolare» il rapporto con Dio. La religione si articola sempre in una duplice modalità, con i testi e con i gesti, assumendo in tal modo la doppia valenza di mito e rito. È per mezzo dei miti e dei riti, infatti, che noi riusciamo ad avere un rapporto con il trascendente. La fede, invece, ha a che fare con la fiducia. Solo se io mi fido di te, credo in te. La fede, allora, per me non è soltanto un’adesione intellettuale ad alcune affermazioni del nostro credo, e non è nemmeno un abbracciare uno stile di vita o la persona di Gesù. La fede è soprattutto scoprire nella propria storia la traccia di Dio e nasce quando tu scopri che la tua vita è guidata, che c’è un senso... Quando veramente comprendi questo, allora cominci a essere un uomo di fede, una persona, cioè, che non solo è rimasta affascinata da Gesù, ma che comprende di essere il volto di Dio, le mani di Dio, il corpo di Dio, oggi, per gli altri.
Da più di vent’anni, come racconta nella sua Biografia del silenzio (Vita e Pensiero, 2014), lei si dedica alla pratica meditativa. Ma come e perché si è avvicinato alla meditazione?
All’età di 41 anni ho avuto un problema esistenziale molto importante, che mi ha fatto perdere un po’ le fondamenta. Allora ho capito che dovevo scendere più in profondità, perché l’eucaristia, il rosario, la liturgia delle ore, che pure facevo regolarmente, non alimentavano a sufficienza la mia anima. E così mi sono posto in un atteggiamento di ricerca. E lo Spirito mi ha condotto a incontrare i due elementi che oggi configurano tutta la mia vita: da una parte Charles de Foucauld, che possiamo definire il padre del deserto contemporaneo, e dall’altra il buddismo Zen. Quindi ho cominciato a viaggiare prima nel Sahara, per approfondire la conoscenza, nell’ambiente in cui aveva vissuto, di Charles de Foucauld, e poi in Oriente per apprendere la meditazione Zen. Alcuni anni dopo ho compreso che non c’era bisogno di «emigrare spiritualmente» allo Zen, perché nella nostra tradizione cristiana esisteva già una pratica di silenzio interiore, l’esicasmo (pratica mistica che mira alla ricerca dell’unione con Dio attraverso la contemplazione e la preghiera incessante, ndr), eredità dei padri e delle madri del deserto. A quel punto non ho più avvertito il bisogno di rifugiarmi in altre tradizioni religiose, anche se da esse continuo a imparare.
Quali sono i frutti spirituali della meditazione?
Se dovessi indicare il principale frutto spirituale, direi che è l’amore. Ma in realtà la meditazione è un cammino di scoperta, nel quale si incontra da principio la pace, dopo l’amore e infine l’allegria. Mi spiego. Se ogni giorno ti alleni a fermarti, a non reagire, pian piano imparerai il valore della «pausa». La pausa ti dona tempo e ti permette di non ridurre la tua vita a una costante reazione agli eventi, perché, dando più tempo alle cose, le puoi vedere e comprendere più chiaramente. Quando tutto va in fretta nella nostra vita, non c’è tempo per accendere la luce. Solo il tempo e il silenzio conducono alla luce, conducono alla chiarezza. E la chiarezza porta al coraggio. Quando nella nostra vita non agiamo, infatti, è perché non vediamo chiaro: il coraggio è il risultato della chiarezza interiore. Il frutto del coraggio, poi, è la fecondità: se tu agisci, il tuo albero comincia a dare frutti di cui anche gli altri possono nutrirsi. E la conseguenza di questa fecondità è l’allegria. Perché tu vedi che la tua vita ha senso, che tu sei cibo, sei eucaristia per l’altro. Questa è la pienezza cristiana. Una persona che non è abituata a meditare si immagina un meditatore come un asceta, una persona distaccata dal proprio corpo. Ma è esattamente il contrario.
Che rapporto c’è tra meditazione e corpo?
C’è un rapporto molto stretto. Noi abbiamo un’immagine molto idealizzata di chi medita. Ma la realtà è sempre molto più concreta e molto più bella dei nostri ideali. La meditazione è in prima istanza un’esperienza corporale. Tu ti siedi in silenzio e la prima cosa che trovi è il corpo. La dimensione corporale ti infastidisce, avverti prurito, ti fa male la schiena… sembra quasi ci sia una specie di congiura del corpo che non vuole che tu rimanga fermo. Invece, se tu non trovi la capacità di stare fermo fisicamente non potrai rasserenare la mente. Il primo passo per la meditazione è esattamente l’autodominio corporale. L’autodominio è libertà. È comprendere che non è il corpo che ti deve dire che cosa devi fare ma è il tuo «Io profondo», o anima, che dà gli ordini e il corpo e la mente devono solo obbedire. Quando uno fa esperienza che c’è qualcosa di più profondo del corpo e della mente, allora comincia a essere davvero padrone di se stesso. Ma questa attitudine va allenata, non è spontanea. Ecco perché io dico che il corpo è la porta dell’anima. L’anima è essenziale, però il corpo è basilare. Se non cominci dalla base, non puoi andare all’essenza, alla sostanza della questione. E questo per noi cattolici è una vera rivoluzione, perché ci hanno insegnato a pregare con le parole, con i sentimenti e quasi mai con il corpo. Questa consapevolezza apre un modo completamente nuovo di rapportarci con Dio.
Lei ha scritto che la semplicità è essenziale per raggiungere la luce. Perché?
Perché la complessità è una questione della mente, invece la semplicità è una questione dello spirito. Lo spirito è semplice e tutto quanto è semplice è spirituale. Se non fosse così non potrebbe essere universale. Gesù lo dice chiaramente: «Ti rendo grazie Dio, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt, 11,25). Noi cattolici abbiamo fatto della nostra fede una questione complessa, con tante cose in cui credere, tanti riti da compiere, mentre invece abbiamo bisogno di un contatto più diretto, più immediato con il Signore e la meditazione ce lo fornisce.
La luce, lei ha detto ancora, non è altro che ombra illuminata. Delle ombre, dunque, cioè delle nostre ferite, non dobbiamo avere paura.
Le ombre vanno assunte, capite, attraversate. Senza soffermarcisi troppo, però, perché sono pericolose, rischiano di trascinarci a fondo. Le nostre ombre sono sostanzialmente tre: la paura, davanti al futuro; la colpa, davanti al passato; l’attaccamento, davanti al presente. Ma se tu cominci ad allenarti a dare un nome alle cose («questa è paura», «questa è colpa», «questo è attaccamento»), allora cominci a guardare questi sentimenti con amore, con indulgenza, e ti rendi conto che, benché possano essere molto insistenti, il lavoro ascetico li indebolisce. Io, per esempio, continuo ad avere alcune ombre, però non c’è paragone rispetto ad appena qualche anno fa. Adesso, quando l’ombra arriva, io le sorrido dicendole: «Ma cosa stai facendo qui, sai che non ti apro, è inutile». E allora, così com’è arrivata, lei se ne va. Poi capita di trovarne qualcuna di più forte, che non se ne vuole andare. Ma anche questo è utile: serve a capire che non ci si può fidare mai, perché noi restiamo sempre fragili. Per questo dobbiamo confidare nella grazia. La grazia è efficace, ma dobbiamo lasciarla entrare in noi, la nostra coscienza deve collaborare. Questo concetto è molto importante, secondo me. Tendiamo a credere che, con l’avanzare dell’età, le ombre si dissolvano. Ma non è vero. Semplicemente, tendiamo a relegarle nell’inconscio, dove restano e ci impediscono di fidarci della vita, ci tolgono la speranza.
Da qualche mese è uscito in Italia il suo ultimo libro, I contemplativi, una raccolta di storie brevi. Lei è un narratore, anche i suoi saggi hanno sempre e comunque una dimensione narrativa. Quanto contano per noi esseri umani le storie?
La nostra anima ha bisogno di storie. La Bibbia è fatta di storie. Il servizio spirituale che fa la buona letteratura, come ha scritto anche papa Francesco nella sua Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione (17 luglio 2024) è straordinario. Ricordo ancora quando lessi Gli occhi dell’eterno fratello di Stefan Zweig: avevo 25 anni e ne rimasi sconvolto. Le storie che ci trasformano di più sono le biografie, perché abbiamo bisogno di modelli, di persone che con la loro vita ci raccontino storie luminose.
Nel 2014 ha fondato l’associazione «Amici del Deserto»...
«Amigos del Desierto» è un’associazione privata di fedeli, che ha lo scopo di approfondire e diffondere la tradizione contemplativa di matrice cristiana. Ci piace definirci, con umiltà, i nuovi esicasti, perché il nostro carisma è soprattutto la meditazione. Intendiamoci: non che i sacramenti o la dottrina o la liturgia non siano fondamentali, ma il nostro percorso ci porta ad approdare a essi in un secondo momento. Noi cominciamo con il fare esperienza personale di noi stessi e dello spirito che sta in noi. Poi, la dottrina e i sacramenti arrivano di conseguenza. L’associazione è cresciuta parecchio in questi anni, attualmente ci sono circa un centinaio di gruppi in Spagna, America Latina, Portogallo… In Italia ci sono quattro gruppi (a Roma, a Milano, a Bergamo e in Liguria) e altri quattro stanno nascendo.
Ha anche avviato un progetto di monachesimo secolare, Tabor, e ha confidato che vorrebbe aprire una sorta di «casa per la meditazione» a Madrid…
Tabor è nato nel 2017. Il nome si deve ad alcuni Amici del Deserto, che avvertivano il desiderio di un impegno maggiore, sul modello dei monaci secolari del Monte Tabor, consacrandosi a Dio ma rimanendo nel mondo. È una realtà contemplativa, non apostolica, nel senso che l’unico apostolato a cui ci dedichiamo è quello di dare la possibilità alle persone di fare esperienza di ritiri meditativi. Ogni monaco ha sette momenti della giornata (per un totale di 3/4 ore) in cui si ferma e si dedica a pratiche meditative, e poi partecipa a sette ritiri all’anno. Per il resto, fa una vita normale. La trovo una proposta molto bella, nuova, una sorta di neo monachesimo. La casa che vorrei aprire a Madrid, invece, sarà destinata a ospitare tutti coloro che vorranno sperimentare la meditazione. Sarà una sorta di oasi spirituale in città.
Lei ha raccontato che in famiglia siete sette fratelli e che ognuno di voi si è dedicato a un’arte differente. Quanto contano l’arte, la bellezza, nel cammino spirituale?
Moltissimo. Sono convinto che nella vita ci siano tre ambiti spirituali per eccellenza: la religione, l’arte e l’amore. Se tu hai cura di questi ambiti, senz’altro sarai una persona spirituale.
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