L’Amore che vince la morte
«Gentile direttore, nel numero di ottobre scorso ho letto l’articolo che ricorda i fatti del Vajont, a sessant’anni dalla tragedia. È un tema che sento molto e che da anni approfondisco perché credo ci sia moltissimo da imparare da quella vicenda, per quanto accaduto prima, durante e dopo quella notte tremenda. Questa immane sciagura ha sempre innescato in me pensieri e riflessioni che vanno ben oltre gli interrogativi su cause e responsabilità materiali, portandomi a meditare sul destino ultimo dell’uomo, sulla sua natura ed essenza. Come possono così tante persone sparire assieme, contemporaneamente, nel nulla? Tantissimi bambini appena affacciati all’alba della vita. E i nascituri che mai videro la luce? Non è possibile che la loro storia sia finita lì. Quella terrena, forse sì. Ma ci deve essere dell’altro. Quel dolore deve avere un senso, come tutto il dolore che milioni e milioni di persone hanno provato e provano sulla Terra. Nel passato come oggi. Riflessioni e ragionamenti che portano lontano, in una regione impervia dove appunto la ragione si ferma e subentra la Fede, tenue lucerna che con fatica rischiara antri remoti e bui».
Lettera firmata
Ringraziamo il caro lettore per la sua condivisione. Certamente la morte è un evento definitivo nella nostra vita del quale non abbiamo un’esperienza diretta, vissuta sulla nostra pelle. «La morte è la madre di tutte le paure», ci ha ripetuto Simone Olianti nelle catechesi di quest’anno: per riuscire ad affrontare umanamente questo, cerchiamo un senso alla morte e al dolore. Tuttavia, il senso non può consistere in una spiegazione: ci accorgiamo che sono eventi che ci superano, che non possiamo controllare, per cui la risposta non viene dalla comprensione intellettuale, ma piuttosto dalla presenza di qualcuno che anche nel momento più buio ci sta accanto. Ne abbiamo parlato il mese scorso, nel dossier dedicato alla perdita di un figlio, lutto sconvolgente e innaturale, di fronte al quale le parole poco possono consolare.
Come sostiene il lettore, una luce ci viene dalla fede. Essa non si basa solo su un’ideale speranza che ci sia una vita migliore dopo la morte, ma sull’esperienza concreta di Gesù Cristo: il Dio cristiano non è un dio lontano, che rimane sulle sue, ma si fa carne (lo ricordiamo nel Natale) e condivide con noi l’umanità in tutte le sue dimensioni. Non risolve tutti i problemi delle persone che incontra, non guarisce tutti i malati, ma si fa vicino alle situazioni e ai vissuti, entrando in relazione con empatia, con gesti di accoglienza più che con parole. E Gesù si è fatto solidale alla nostra condizione fino a entrare anche nell’abisso della morte, e di una morte infamante. Sperimenta, come tutti i mortali, la solitudine assoluta davanti al termine della vita; ma l’abisso che tutto divora non lo trattiene, perché nulla può spezzare il suo legame d’amore col Padre. E questo vale anche per noi, sempre che lo vogliamo veramente.
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