L'arte di accompagnare le nuove generazioni
Qualcosa mi sembra si stia muovendo, nel campo della pedagogia. Una nuova generazione di insegnanti sta cercando di darsi basi migliori di quelle che fiacche e malate facoltà universitarie sono riuscite a dar loro, addestrandoli al conformismo e alla formazione di nuovi conformisti con la scusa del «progresso». Già il fatto che alla pedagogia si sia voluto dare il nome di «scienze della formazione» ha una connotazione ambigua: la parola pedagogia, dal latino, vorrebbe dire «chi accompagna i fanciulli». «Educare» implica assistere ed «estrarre» dal bambino ciò che di suo può dare; mentre «formare» mi fa pensare a chi dà forma a qualcosa.
La pedagogia degli ultimi decenni è stata dominata dall’ideologia dello sviluppo, perseguita con ottusa ostinazione in particolare dai pedagogisti della scuola bolognese, legata alle ideologie del Partito comunista: quelle che lo hanno fatto scomparire trascinando purtroppo nel vuoto, a servizio dello sviluppo capitalista, la storia della sinistra. Non esiste una pedagogia ferma, non determinata dalla storia. In momenti diversi la pedagogia ha compiti diversi. C’è una pedagogia del tempo di pace, e la fioritura bellissima della nostra pedagogia è avvenuta non a caso nel dopoguerra (l’esempio più vitale fu quello del Movimento di cooperazione educativa). Ma c’è anche una pedagogia del tempo di guerra, esemplificata dalla grande figura del pedagogista polacco Theodor Korczak che, ebreo, fu costretto a trasferire nel ghetto di Varsavia, quando i tedeschi la occuparono, il suo orfanotrofio che, fino ad allora, non aveva accolto solo ebrei.
Egli accompagnò ad Auschwitz i suoi bambini morendo insieme a loro nelle camere a gas. Scrisse del «diritto dei bambini alla morte»: i bambini devono sapere che si muore, e cosa in certe e tremende circostanze storiche li aspetta. È attuale oggi, purtroppo, una pedagogia della guerra in tanti Paesi del mondo (e ha ragione il Papa quando parla di una terza guerra mondiale in corso), ma dovrebbe anche esistere una pedagogia del tempo di attesa. Se ci si ferma a pensare al nostro domani, c’è infatti da spaventarsi. Per noi e soprattutto per i bambini: che futuro li aspetta? La colpa della cultura italiana di questi anni, quella dei letterati e dei sapienti e dei politici così come quella del popolo, è di non voler guardare al domani, di vivere ossessivamente nel presente pensando che nulla cambierà. Il domani dovrebbe spaventarci e farci correre ai ripari tra guerre e disastri ecologici. No, il nostro domani non sarà simile all’oggi, e può essere un domani terribile.
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