Musica sacra, linguaggio di Dio
Sotto le splendide cupole della Basilica del Santo da sempre risuonano inni, canti e solenni armonie che accompagnano le celebrazioni liturgiche. Già in una delle biografie del Santo, la Benignitas, si riporta che la traslazione del corpo del Santo (8 aprile 1263) avvenne «con la più splendida solennità, tra suonare di organi, squillare di trombe, tintinnare di cembali, armonioso concento di canti soavi», dove, quando si parla di organi, il riferimento è probabilmente a quelli portativi e non allo strumento fisso, la cui presenza è documentata solo a partire dal Quattrocento. Tuttavia, il canto dell’epoca era soprattutto il gregoriano, almeno fino alla metà del XV secolo, quando si fece progressivamente spazio alla polifonia. Attestata è la cura che i frati hanno sempre avuto per l’aspetto musicale e soprattutto per la formazione: per questo c’era un maestro, il cui primo compito era di insegnare il canto.
L’impegno divenne stabile con l’istituzione della Cappella musicale da parte dei frati insieme ai massari della Veneranda Arca del Santo, il 28 dicembre 1486. Si stabilì che venisse chiamato un maestro di musica per insegnare non solo il canto piano (gregoriano) ma il canto figurato (polifonico): una grande apertura per quel tempo. Il primo maestro fu frate Pietro di Belmonte, a partire dal giugno 1487 chiamato a svolgere il compito «de cantar in coro e de insegnar cantar ai frati e puti del convento». Alla Presidenza della Veneranda Arca del Santo spettava la diretta sovrintendenza della musica, in particolare la scelta del maestro di cappella, che doveva essere un frate minore conventuale di provata fama e capacità; i suoi compiti erano dirigere la Cappella nelle funzioni prestabilite, insegnare a cantare ai giovani frati, comporre musica per Messe e salmi. Da lui dipendevano cantori, suonatori e organisti (inizialmente solo frati, poi anche secolari) di cui esaminava le capacità, promuoveva le doti, riprendeva gli errori e la mancanza di puntualità. L’organico della Cappella del Santo ebbe ampliamenti e riduzioni, in relazione alla disponibilità economica: ad esempio, alla fine del Cinquecento, si oscillava tra i diciassette e i venti componenti; lo storico Polidoro Virgili registra la presenza di «organi portatili, oltre che i due grandi, tromboni, cornetti, e violini», e altri documentano la viola, la viola bastarda e la dulciana.
Come dare splendore, attraverso la musica, alla Basilica antoniana? Un impegno che si protrasse nei secoli e nel quale si cimentarono tanti maestri, col compito di celebrare i divini uffici, informati dalla cultura musicale del loro tempo. Tra i più importanti ricordiamo padre Costanzo Porta (presso la Basilica negli anni 1565-1567 e 1595-1601), acuto e geniale contrappuntista, degno di stare a lato del gran maestro del tempo, Pierluigi da Palestrina. Un altro grande fu padre Francesco Antonio Calegari (al Santo tra il 1703-1727), veneziano, compositore di singolare armonia e stile nobile, studioso di musica che per primo impiegò nei suoi componimenti alcuni concetti musicali sviluppati nello stesso periodo anche da Jean-Philippe Rameau. Suo allievo fu padre Francesco Antonio Vallotti (maestro di Cappella dal 1730 al 1780), che dedicò grande impegno allo studio musicale: ammirato compositore, la cui fama arrivò oltre i confini d’Italia, anche tra i regnanti e principi. A lui contemporaneo, il violinista Giuseppe Tartini (1692-1770), primo violino e direttore d’orchestra per cinquant’anni al Santo; a partire dal 1721, gli venne chiesto di occupare il posto di direttore d’orchestra, con l’inusuale concessione, giustificata dal suo grande prestigio, di poter andare in altri luoghi a suonare (ad esempio all’incoronazione di Carlo VI a Praga).
I virtuosismi dei cantanti e degli strumentisti erano elementi ben presenti a partire da metà del Settecento: le celebrazioni erano veri e propri concerti, secondo la sensibilità dell’epoca, ma destavano qualche preoccupazione, che andrà aggravandosi nell’Ottocento, con l’insinuarsi di uno stile musicale modellato sulle forme dell’opera e del teatro (come i testi liturgici musicati con motivi presi da arie liriche). Contestazioni vennero soprattutto dal Movimento ceciliano, che auspicava un ritorno al gregoriano e alla polifonia di Palestrina, istanze che furono accolte anche dalla Veneranda Arca, la quale invitò a moderare l’uso dell’orchestra e la riproduzione di temi profani.
Tra i più importanti fautori della riforma fu Giovanni Tebaldini (1894-1897), che impose una profonda revisione della Cappella, modificando la composizione dei cantori, eliminando l’orchestra (dopo il centenario antoniano del 1895) e istituendo una scuola di canto per voci maschili e bianche. A lui successe Oreste Ravanello (1898-1936), che contribuì al rinnovamento della musica liturgica recuperando e ricomponendo elementi antichi in forme e sonorità fruibili all’ascolto dei fedeli, anche attraverso l’assimilazione di stilemi della musica romantica (riprese, ad esempio, brani di Mendelssohn, Liszt e Brahms), senza indulgere nell’operistico. In seguito il coro fu affidato a padre Pio Capponi, che introdusse le voci femminili; poi a padre Giancarlo Betteto (1984-2006). Ora è guidato dal maestro Valerio Casarin.
La musica e il canto sono elementi preziosi per le celebrazioni, toccano l’anima nel profondo e la elevano a Dio, purché non indulgano in apparati fastosi, ma favoriscano preghiera e partecipazione attiva dei fedeli.
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