Oltre il muro
Ti manca l’aria quando entri per la prima volta in una galera. Basta un passo, oltre la riga gialla che delimita la porta carraia, e si entra in contatto con una realtà sconosciuta, un mondo di cui si aveva solo sentito parlare. I primi passi sono pesanti, ci si muove come in altitudine, in una sorta di galleggiamento mentale che porta a sforzi interiori intensi.
Si prova a capire quelle facce «sporche» che incrociano i nostri sguardi curiosi e intimiditi. Volti estraniati e persi nel vuoto. Teste abbassate, mutismi forzati e figure umane che vagano in spazi limitati da confini artificiali. Non è facile guardare i loro visi, ci si sente invadenti, irrispettosi. O forse, lavandosi la mente dai pregiudizi, solo e semplicemente curiosi. Il carcere si può frequentare per tanto tempo e, a un certo punto, si può pensare persino di conoscerlo. Non è così, non si capirà mai quel mondo, se non ci si è dentro.
Di giorno, i riflettori puntati direttamente verso una vita di condivisione portano a immaginazioni assolute e lontane dalle logiche interiori dell’individuo. Tutto assume un valore normale. O quasi. Quando si spengono le luci, invece, ecco che, come per metamorfosi, qualcosa cambia. Cambiano i bisogni, le necessità. I pensieri volano oltre il muro, gli stati d’animo si confrontano e non trovano pace. Una sorta di cruenta battaglia tra la realtà e i sogni negati.
L’immaginazione oltrepassa le inferriate della cella e si inizia a riflettere e a pensare a quando un giorno, dopo aver pagato il proprio debito con la giustizia, si potrà riassaporare un’aria priva di involucro forzato. E si guarda il cielo, che a volte regala lo spettacolo delle stelle. Sempre troppo lontane per sentirsi liberi. Anime prigioniere in un mondo di balordi e malandrini. Frammenti di società generata a scacchiera e priva di un ordine logico. Occhi sbarrati che fissano il niente. Pupille rassegnate ingrassate da umide lacrime. È facile sbagliare, difficile è pagare il conto che l’oste presenta.
E poi capita di vederli fuori, i ragazzi. Bastano pochi passi oltre la linea di confine e i filtri preimpostati perdono le loro funzioni originarie. Tutto assume un regime di spontaneità naturale. Le facce, gli sguardi, i «musi duri», non sono più gli stessi. Torni a vivere dopo i conti salati che hai pagato. Il sorriso trattenuto esplode e ritrovi il coraggio mancato che ti ha fatto abbassare lo sguardo per tanto tempo. Senti di essere vicino a te stesso e provi a ricominciare.
Non ti senti più il peggiore della classe e torni nella consapevolezza di quello che veramente sei. Troppi silenzi, persone distratte e troppo assenti invadono la tua mente. Ci provi ogni mattina a risalire dentro, ma non basta. Troppe porte chiuse dietro agli occhi trasparenti che non sanno più vedere. La strada è in salita, sfidi la vergogna e cerchi di non commettere altri errori. Ma vuoi vivere. Provi a correre via. Ma il fiato è in debito di forze. Inciampi, scivoli ancora.
E poi si parla di libertà. Di dignità, e di altro ancora. Ci vuole una certa profondità d’immaginazione per capire e definire il confine tra la perdita della libertà e la privazione della dignità. Ogni essere umano è fine a se stesso, la dignità è un sentimento importante che considera il proprio valore morale. È considerazione di se stessi, delle proprie capacità e della propria identità personale. Uomini in divisa blu da una parte. Parenti in fila dall’altra. Razza umana in attesa della burocrazia e dei controlli di sicurezza per un permesso di visita ai propri cari. Delinquenti, ma pur sempre cari.
E si cerca ancora di capire, tra una barriera e l’altra. Capire quel mondo che sta scomparendo alle spalle. Si cammina e si cerca di mettere ferocemente assieme i tasselli raccolti oltre il muro. Idee confuse per un castello di sabbia incantato. E solo mentale. Manca solo il suono di un bip e la luce rossa di uno scanner che leggerà un codice a barre protetto da una custodia in acetato. Siamo di nuovo nella società. E ci sentiamo soffocare.