Parole tra donne
Siamo nel 2010, in una comunità mennonita (anabattista) di fede cristiana e pacifista, e in una collocazione naturalistica invidiabile, tra campi sterminati, fattorie pulite e stalle efficienti. Nella colonia vige una separazione netta dei ruoli sociali tra uomini e donne e una devozione religiosa al dovere procreativo e all’unità familiare. Vita semplice, abitudini tradizionali, autosufficienza dalla società tecnologica, abbigliamento sobrio ed eguale, niente elettricità, telefoni o automobili. Ferrei ritmi di preghiera, etica anti-individualista e anti-carrierista e sottomissione alla volontà di Dio. Eppure la violenza contro le donne si fa occultamente strada quando la notte, il buio, il silenzio, il ritiro domestico coprono l’aggressività maschile e liberano istinti predatori e dispotici. Alcune donne vengono narcotizzate con sedativi per bovini e rimangono incinte. La corporazione dei capifamiglia nasconde i misfatti, gli stupri, l’autoritarismo. Chi non si adegua alla regola di tacere e sopportare viene picchiato, scomunicato ed esiliato. Oppure tenta il suicidio, perde l’uso della parola, cade in una confusione identitaria.
Il film Women talking (in italiano Il diritto di scegliere, tratto dal romanzo della canadese Miriam Toews, Donne che parlano, Ed. Marcos y Marcos) è diretto da una donna, la sensibile attivista politica e attrice Sarah Polley (La vita segreta delle parole, 2005) e rappresenta essenzialmente una conversazione tra bambine, ragazze, mogli, nonne e un delicato maestro, unico uomo, a verbalizzare il dialogo. È un esercizio di immaginazione «al femminile» finalizzato a prendere una decisione morale. Le alternative? Arrendersi e non fare niente, oppure combattere (staying and fighting), oppure andarsene e lasciare che i maschi se la sbrighino tra loro, incapaci come sono di provvedere ai bambini, ai malati, alle incombenze quotidiane: pulire, cucinare, lavare, insegnare ai più piccoli.
Il dibattito tocca temi etici centrali, come la promessa, la fede e il perdono. «Non perdonerò mai chi attenta alla sicurezza della mia bambina!» grida una madre abusata. «Cristo ha perdonato; imitarlo è la nostra vocazione» replica un’anziana. La verità emerge attraverso l’ascolto di racconti, aneddoti, fiabe, parabole, piuttosto che imponendo dall’alto freddi codici di comportamento di genere maschile, che spezzano le relazioni più delicate e soffocano i sentimenti spontanei. La verità è che tutte credono nel dovere di perdonare, ma scoprono che la forma in cui obbedire a questo comando evangelico non va confusa col «permettere» o «condonare a poco prezzo» o «accettare» passivamente la contraddizione. La forma dell’amore è uno stile di coraggio coltivato creativamente, confezionato nelle fogge sartoriali che gli esseri viventi possono indossare e animare affettivamente.
Le donne conoscono l’intero ciclo di vita biologico, dalla nascita alla maturazione, alla morte, e sanno che bisogna combattere (e non subire pavidamente) l’oscuro nemico che alberga nei cuori violenti e li spinge a replicare su altri le molestie subìte nell’infanzia. Proprio in nome dell’uomo premuroso e fedele che potevi essere e che ancora sei in grado di diventare, io sposa – che mi sono promessa a te nell’amore – ho il diritto e il dovere di denunciarti pubblicamente, di prevenire e contenere la tua impulsività e, infine, se non c’è rimedio, di abbandonarti alla tua nevrosi, purché si accenda in te una scintilla di conversione e una speranza di trasformazione. Cristo non annuncia una facile, omertosa convivenza di sangue, ma una lotta appassionata nello spirito, qui e adesso, contro gli idoli del dispotismo e le catene dell’androcentrismo.
Le donne parlano per tutto il tempo della pellicola, con ilare schiettezza o con graffiante rabbia. Parlano per portare alla luce, in doglie dolorose, la cruda realtà della convivenza. L’ascetica colonia in cui sono cresciute è l’istituzione che le donne intendono trasformare. Vogliono decidere di loro stesse proprio lì nel fienile, che sembra grande come una cattedrale divenuta l’arena sacra di una difficile scelta democratica. La parola è l’unica azione del film. Il cinema, del resto, è un verbo di speranza, è una muta conversazione tra spettatori interessati a diventare i protagonisti di una futura vicenda di liberazione.
L’immaginazione visiva gareggia con quella verbale e sonora. Le inquadrature sono da interni, teatrali, ma interrotte da flashback sui traumi patiti, le perdite ematiche, i mutismi da stress. Oppure la cinepresa ci mostra l’ambientazione rurale, il paesaggio infinito, i giochi di bimbi, scene scolari, festosi contatti con i cavalli. Gli uomini, quelli che contano, non ci sono. Sono dalla polizia a riscattare gli empi colpevoli, a pagare le solite cauzioni per i pedofili. Ma le bambine hanno visto tutto e non dimenticano. Sentono da lontano l’odore del peccato, riconoscono le facce dei colpevoli, parlano direttamente allo spettatore. Contro il patriarcato, contro i ladri di sogni, la voce narrante di una fanciulla ricorda a una bambina in fasce che la vecchia brutta storia è finita e che ora si gira pagina.
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