Perché proprio a me?

A volte da una «non risposta» può nascere la riflessione sulle istanze delle persone con disabilità e la creazione di una cultura dell’inclusione.
19 Maggio 2021 | di

Probabilmente ciascuno di noi, almeno una volta nella vita, avrà avuto un incontro fortunato! Nella mia personale esperienza di educatore e formatore ho avuto modo di assaporare un’infinita quantità di gioia, incontrando bambini, giovani, insegnanti, operatori del sociale e non. Insomma, l’incontro nelle sue varie sfaccettature per me è sempre stato una ragione di vita! Ed è incredibile come questa consapevolezza sia nata proprio durante uno dei periodi più duri della mia adolescenza. 

Nel 1975 ho perso mio padre e, da ragazzino qual ero, sentivo sulle spalle il peso di questa perdita importante. In quel momento tanti dubbi mi attanagliavano: più di tutti, quelli generati dalla presa di contatto con la mia disabilità. La domanda che mi ponevo e ponevo agli altri era sempre la stessa: «Perché proprio a me?». Il mio «incontro» fortunato è avvenuto nel 1977, quando il mio caro amico don Edelweiss Montanari, durante il nostro primo soggiorno estivo nella piccola località veneta di Borca di Cadore (BL), con una di quelle che amo definire «non risposte» alla mia domanda onnipresente, ha segnato l’inizio della mia rivoluzione identitaria: «Non so cosa dirti… Io so solo questo: qualunque cosa si cerchi nella vita, alla fine rimangono solo due possibilità: o Dio non esiste, o Dio esiste.

Se è vera la prima opzione, siamo inevitabilmente sottoposti alla legge del caso. Ti dirò di più. Io sono più contento di essere così come sono piuttosto che essere come te e se, per qualche caso, mi dovesse capitare di essere come te, dovrò tenermi la mia condizione senza scampo. Però, se Dio esiste… beh, in questo caso sono convinto che Egli ama tutti gli uomini e cerca in tutti i modi possibili di far capire loro questo suo immenso amore; e si serve, per perseguire questo fine, anche di noi: chiede collaborazione». (cfr. Una Vita Imprudente, Erickson 2003) 

Da questo confronto con il don ho capito che la mia disabilità non era «una sfortuna che mi stava appiccicata addosso», ma una caratteristica del mio essere, una peculiarità che mi ha permesso di avere un rapporto più profondo con Dio, «una collaborazione particolare, appunto». Come scrivo nella mia autobiografia, Una vita Imprudente, «all’inizio ero succube di un’immagine di me profondamente sbagliata; poi, attraverso il confronto con gli altri ho compreso l’entità dell’errore e ho trovato la strada per non permettere a quest’ultimo di schiacciarmi; ho imparato ad accettarmi così come sono e a essere un protagonista attivo della mia esistenza: in pratica, ho imparato a essere libero nella mia diversità».

Da quella «non risposta» è emerso dunque il bisogno di partire da me stesso nell’incontro con gli altri, poiché ricevere fiducia ci rende consapevoli di quanto possiamo offrire. Questo poi ha un grande impatto sulla nostra realizzazione personale, sul nostro operato nella società, e fa sì che gli altri possano trovare nell’incontro con noi bellezza, coraggio e resilienza. Tale convinzione mi ha sempre guidato nel mio lavoro: dalle parole di don Edelweiss sono nate innumerevoli azioni concrete che hanno portato poi a una riflessione sulle istanze delle persone con disabilità, alla creazione di una cultura dell’inclusione

Sono sicuro che da una «non risposta» possa sempre nascere un percorso di vita, proprio come accadde a sant’Antonio dopo aver incontrato san Francesco ben ottocento anni fa. E voi, quali incontri fortunati avete fatto nel corso del vostro cammino? Scrivete a claudio@accaparlante.it oppure sulle mie pagine Facebook e Instagram.

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Data di aggiornamento: 19 Maggio 2021
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