Ricominciare… dalle bambole
Quando vedo le immagini della distruzione dei bombardamenti in Ucraina provo l’istinto di conservazione di distogliere lo sguardo. Giro pagina, cambio canale o scorro via le foto sul telefono, perché il male che fanno mi sembra privo di senso: non posso cambiare la realtà che vedo, solo subirne il dolore, senza sapere fino in fondo né le ragioni per cui è cominciato il conflitto, né le azioni da fare perché cessi, che sono tutte fuori dalla mia portata. Non ignorare che quelle cose stiano accadendo ora e qui, a due passi da noi, è certamente importante, ma bere quotidianamente dal pozzo nero di media che cercano la sensazione più dell’informazione non costruisce alcuna consapevolezza ulteriore, anzi questa continua pornografia del dolore ha come risultato l’anestetizzazione dell’empatia. I cumuli di macerie, gli oggetti quotidiani distrutti, i corpi violati, bruciati o smembrati, a stento distinguibili nei vestiti stracciati tra i detriti che erano case e scuole, perdono storicità e diventano la diapositiva di ogni conflitto in ogni tempo, perché le guerre sono uguali ovunque: mai sono state la soluzione, sempre il problema.
Per comprendere dove nasce una guerra occorrerebbe capire che cosa fa pensare agli esseri umani che distruggere sia una valida modalità di relazione, sia con le cose che con le persone. Questa domanda ce la si può porre anche senza guardare tutti i giorni foto di smembramenti, perché torna da sola nei momenti più impensabili, che sembrano lontanissimi dal piano dei conflitti internazionali e invece lo sono meno di quanto si creda. A me è tornata mentre a Napoli visitavo un museo – cose meravigliose che si possono fare in tempo di pace – che tutti chiamano Ospedale delle bambole. È un posto unico nel suo genere, pieno dei reperti di mille infanzie, e nel nome c’è già la sua storia: qui da centotrent’anni si aggiustano bambole di ogni tipo, siano di ceramica, legno, plastica o pezza. I suoi laboratori di restauro sono nati per sistemare oggetti di teatro, ma sono presto diventati l’ultimo rifugio di chiunque avesse un giocattolo amato da risanare, una cosa ancora possibile in tempi in cui non esisteva il consumismo degli oggetti e una bambola ben fatta era un lusso prezioso.
Questo posto nel cuore della via Spaccanapoli è un regno silenzioso di alto artigianato, perché ci vuole maestria per immaginare altre possibilità dove gli altri vedono solo frantumi. Niente di meno di quel che fa la diplomazia: credere che tra le armi e la resa ci sia sempre un’altra scelta, perché a sparare, come a buttare via quel che non si sa aggiustare, son capaci tutti. Muoversi tra gli occhi di decine di bambole umanoidi è insieme inquietante e interlocutorio. Per me quelle bambole sono solo oggetti, ma per qualcuno erano «la sua bambola», qualcosa che gli ha scacciato gli incubi, su cui ha pianto e riso, che ha abbracciato e sui cui pensieri ha fantasticato, dandole un nome e una personalità. Non sono stata portata qui perché ero bella – sembrano dire tutte –, ma perché ero speciale per qualcuno. Ciascuno cresce solo se sognato, diceva Danilo Dolci parlando del giusto sguardo pedagogico verso i più piccoli, ma è un concetto che si può parafrasare anche per gli oggetti: tutto esiste solo se sognato.
Perché il mondo sia riconoscibile e abitabile, occorre essercelo in qualche modo immaginato. Come questo immaginario viene costruito influirà enormemente sul modo in cui entreremo in relazione nella realtà. Per questo aggiustare bambole mi appare un atto insieme civico e commovente. Vuol dire aggiustare l’infanzia come tempo di addestramento, quello in cui si impara a prendersi cura di quello che in noi è più umano: la capacità di considerare speciale qualcosa che sembrava identico a mille altri finché non lo abbiamo amato. Le bambole in questo discorso non sono un giocattolo qualsiasi: antropomorfe, sono simulacri delle persone e aiutano a costruire il senso del riconoscimento dell’alterità, in modi in cui un camion o un coniglio non faranno mai. È la ragione per cui i giocattoli di forma umana dovrebbero offrire la scelta di immedesimazione più ampia possibile: meno umanità identifichi mentre giochi, meno sarà quella che riconoscerai mentre cresci.
«Possiamo accoglierli, sono bianchi e cristiani, ci somigliano» è una frase insieme oscena e violenta, che distingue gli esseri umani tra sommersi e salvabili, eppure l’abbiamo sentita in bocca a molti politici nelle settimane passate, mentre l’inizio della guerra in Ucraina ha cominciato a muovere verso i nostri confini decine di migliaia di profughi. Il riferimento è agli altri profughi, descritti come immeritevoli della nostra cura, i migranti per guerre o povertà che da anni si muovono dall’Africa all’Europa sui barconi o sulla rotta balcanica per realizzare la speranza di una vita migliore. Hanno la pelle nera, sono «bambole con cui non abbiamo mai giocato», e non sappiamo immaginare per loro alcun ospedale che le aggiusti. Ogni passo nei corridoi del museo è un passo nella consapevolezza del nostro rapporto tra frattura e possesso, tra identità e identificazione, dove i racconti fotografici della guerra appaiono come il riflesso di mille infanzie passate a giocare male. Nelle foto dei bambini ucraini morti che non prenderanno mai più un giocattolo in mano si intravedono colpevoli le ombre di adulti per cui gli altri esseri umani erano bambole senza nome, gettabili nel mucchio dopo averle rotte.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!