Rinascere in uno sguardo
Qui e altrove nascono storie d’amore. Sbocciano ovunque in valli isolate o in città con milioni di abitanti. Ci si incontra per caso a una festa, in un locale, per strada, al lavoro. Tra queste storie ce ne sono alcune i cui protagonisti, diversi per grado di istruzione o posizione economica, hanno qualcosa in comune: sanno tessere abilmente un filo di violenza, talvolta invisibile, intorno alle vite degli altri personaggi. Eppure, all’inizio di questi racconti, come accade in tutte le storie d’amore, c’è sempre una partenza luminosa; c’è l’incanto di quella straordinaria luce che scalda il cuore di due persone che si innamorano. È qualcosa di magico e travolgente, che accende gli sguardi e lascia intravedere la parte migliore dell’altro. In questi racconti c’è una promessa di felicità reciproca. A mano a mano che la storia si dipana, tuttavia, dei piccoli segnali di buio avvertono che quell’amore luminoso cela una natura oscura. All’inizio, si tratta di una forma di controllo, spesso sottovaluto o letto dall’altra persona come una manifestazione d’amore, una forma di protezione. Un’ingenuità che in seguito si pagherà a caro prezzo.
Successivamente il controllo si fa più serrato, muta in sopraffazione, e da quel momento in poi si è in trappola; ci si muove a tentoni nell’oscurità quotidiana, sperando di riaccendere e rivedere nell’altro quella luce originaria. E si resiste. Ma in queste storie niente torna come prima, perché ci si ritrova imprigionati in una gabbia di paura. Paura dei gesti e degli scatti d’ira dell’altro, delle parole offensive e dei silenzi punitivi. Paura di non valere ormai più niente e di non avere futuro. Ci si vergogna di raccontare ad altri il proprio fallimento; si teme di non essere creduti. E allora si tace. Si rimane e si aspetta di trovare la forza di fuggire prima che sia troppo tardi. Quante persone subiscono tutto questo! Usiamo il termine «persona» perché, in queste storie, una donna perde la sua identità e, agli occhi dell’altro, è solo un oggetto da possedere. Le cronache di questi ultimi anni ci riportano storie con lo stesso tragico epilogo. Solo nel 2023 sono 103 le donne uccise dai loro mariti o compagni. E, al momento in cui scriviamo, sono già 6 dall’inizio di questo 2024.
Dal buio alla luce
Tra queste vicende c’è anche la storia di Erica Patti. La incontriamo nella sua casa a Ono San Pietro, in Valle Camonica (BS). È una donna di una bellezza delicata e potente. Forse sono i suoi occhi così fieri e profondi; forse è la sua voce, ma Erica emana luce al primo sguardo. È la luce di chi ha attraversato il buio profondo. Di questa storia non vogliamo sottolineare la parte oscura, ma raccontare che cosa è accaduto dopo il suo tragico epilogo. Tutto ha inizio nel luglio 2013, quando i figli di Erica, Andrea (13 anni) e Davide (9 anni), perdono la vita per mano del loro papà, che, nonostante le dieci denunce a suo carico per violenza e stalking, ne aveva ancora la custodia condivisa. Un duplice omicidio messo in atto per vendetta nei confronti della moglie. Ora l’uomo sta scontando l’ergastolo. Questa storia, come altre della stessa gravità, ha alzato il velo sulla fragile realtà di un sistema che in quegli anni non era in grado di accogliere e proteggere le vittime. Dopo il suo terribile lutto, Erica ha dovuto percorrere una lunga e dolorosa strada di rinascita che è durata anni. La sua famiglia d’origine si è stretta attorno a lei e lungo il sentiero ha incontrato uomini e donne che hanno condiviso il suo viaggio e i suoi progetti. Così nel 2015, insieme con il fratello Omar, fonda l’associazione «Dieci» che ora fa parte della rete antiviolenza del territorio della Valle Camonica, in cui operano molti enti istituzionali e associazioni.
Erica spiega che non è facile uscire da queste situazioni: «Il percorso è talmente duro che, se non ne sei convinta, il giorno dopo torni a casa. Ho visto donne piene di lividi che, mentre venivano visitate al Pronto soccorso, dicevano: “Però io lo amo ancora, mi manca già…” quando poche ore prima il marito aveva puntato loro la pistola e le aveva riempite di botte». Gli esperti spiegano queste reazioni come l’esito di una sorta di assuefazione al maltrattamento che è polverizzato nella quotidianità poiché non è tutto il giorno violenza. Quindi le donne, all’inizio, difficilmente si rivolgono alle istituzioni perché temono di essere obbligate a fare passi dei quali non si sentono sicure. «Confidarsi, invece, con chi ci è già passato e non giudica, anzi, capisce le paure e soprattutto crede loro, cambia tutto – dice ancora Erica –. Purtroppo, quando noi donne ci rivolgiamo a certi enti rischiamo di non essere credute e capite; di conseguenza se il grido d’aiuto viene sottovalutato non ritorniamo. È accaduto anche a me, quando feci ben dieci denunce sottovalutate e inascoltate da assistenti sociali e carabinieri».
Oltre a questo servizio dedicato alle vittime, l’associazione è molto attiva anche nei comuni, nelle parrocchie e nelle scuole, dove svolge un lavoro di sensibilizzazione partendo già dalla scuola primaria e fino ai licei. Erica porta la sua testimonianza e partecipa agli incontri insieme con una psicologa, un’avvocata, un educatore, che rispondono in modo professionale alle domande dei ragazzi e capita che dopo gli incontri qualcuno contatti l’associazione per confidarsi riguardo a situazioni che conosce. Ma ci sono dei campanelli d’allarme che bisogna imparare a riconoscere? «Essere possessivi, fare terra bruciata intorno alla vittima tenendola lontana da famiglia e amici o presentarsi a casa per controllare se è vero che lei ha un appuntamento con un’amica, sono alcuni dei segnali – sottolinea Erica –. Ci sono poi la violenza fisica e quella psicologica, che è la più subdola: non sai fare niente, sei brutta, chi vuoi che ti voglia… credenze che difficilmente se ne vanno anche facendo la miglior terapia».
Il problema è che, contrariamente a quanto si possa pensare, oggi anche tra i giovanissimi assistiamo a un fenomeno di regressione culturale rispetto alla figura femminile. «Sì – conferma Erica –, è scoraggiante sentire i discorsi di alcune ragazze: “Se il mio ragazzo è geloso, vuol dire che mi ama”. Oppure: “Se mi dice come mi devo vestire o pettinare o truccare è perché tiene a me”. Vorrei dire alle ragazze: se sapete che un’amica sta vivendo una situazione come quella e siete informate sulle dinamiche, spiegatele di andarsene». A volte, poi, sono le stesse madri che, per un vecchio retaggio culturale duro a scomparire, rischiano, inconsapevolmente, di passare messaggi sbagliati ai figli maschi. «Certe frasi come: “Smetti di piangere, sei un ometto”, sono fuorvianti e purtroppo così radicate nel quotidiano – riflette Erica –. Per questo c’è bisogno di educare le persone, bambine e bambini, ai sentimenti e a riconoscere, dunque a non temere o trattenere, le proprie emozioni, a non vergognarsene. Inoltre, non abbiamo ancora superato certi stereotipi che vedono la figura femminile relegata all’ambito domestico dal quale non deve uscire. In questo pericoloso retaggio culturale, le donne diventano nemiche delle altre donne, io stessa ero vittima di giudizi malevoli: “Chissà che cos’ha fatto lei per farlo reagire così! Se l’è cercata…”».
Ora, dopo più di dieci anni, quei giudizi sono scivolati via, dissolti. Rimane lo sguardo fiero, dolcissimo e profondo di Erica, che racconta la sua rinascita. Finalmente, può specchiare i suoi occhi in altri occhi che la amano. Esistono anche uomini buoni, capaci di tenerezza. E dopo tanto dolore la vita rifiorisce. «Si è tanto abusato dello sguardo […] che si è finito per non averne più stima; solo a stento, ora, si osa dire che due esseri si sono amati perché si sono guardati. Eppure proprio così e solo così ci si ama; il resto è soltanto il resto, e vien dopo. Nulla è più reale di queste due grandi scosse che due anime si danno, scambiandosi quella scintilla» (Victor Hugo, I Miserabili).
Puoi leggere questo articolo completo di approfondimenti nel numero di marzo del «Messaggero di sant'Antonio». Prova la versione digitale della rivista!