Salgado nel regno dei ghiacci

È dedicata ai ghiacciai, risorse preziose per l’ecosistema, che stanno progressivamente scomparendo, l'ultima mostra del fotografo brasiliano Sebastião Salgado, mancato lo scorso 23 maggio.
27 Giugno 2025 | di

«Sostammo, e avventurammo lo sguardo / Giù per le verdi fauci dolenti, / E ci si sciolse il vigore nel petto / Come quando si perde una speranza. / Dentro gli dorme una forza triste: / E quando, nel silenzio della luna, / A notte rado stride e rugge, / È perché, nel suo letto di pietra, / Torpido sognatore gigante, / Lotta per rigirarsi e non può». Era il 15 marzo 1946 quando Primo Levi compose Il ghiacciaio, descrivendolo come un gigante inquieto, costretto all’immobilità e destinato con tutta probabilità a perire. Chissà se il poeta s’immaginava che, a poco meno di un secolo, quel suo componimento sarebbe divenuto oltremodo attuale, emblema di una condizione purtroppo sempre più frequente… Secondo uno studio del 2021 (A Holistic Assessment of 1979-2016 Global Cryospheric Extent, in Earth’s Future, 2021, https://bit.ly/4bCF8Iy), dagli anni Ottanta a oggi la criosfera avrebbe perso ogni anno una superficie di circa 87mila chilometri quadrati, pari a quella del Portogallo.

«Quando un ghiacciaio rimpicciolisce troppo, come sta accadendo in questi tempi di riscaldamento globale, non ha più la forza di muoversi, di scorrere (dalla zona di accumulo della neve, in alta quota, a quella di ablazione, a più basse quote) – spiega Elisa Palazzi, docente di Fisica del clima all’Università di Torino –, e questo, spesso, decreta la sua morte». È il caso del ghiacciaio islandese Okjökull, di cui si è celebrato il funerale il 18 agosto 2019. Quale sarà il prossimo a lasciarci? Forse un ghiacciaio «di casa nostra», considerato che, secondo altri studi (Snow Water Equivalent in the Alps as Seen by Gridded Data Sets, CMIP5 and CORDEX Climate Models, in The Cryosphere, 2017, https://bit.ly/3FhXBhD), entro la fine del 2100 l’equivalente in acqua della neve sulle Alpi si ridurrà tra l’80 e il 90% attorno ai 1.500 metri di quota

Mira a documentare questa progressiva perdita l'ultima mostra fotografica di Sebastião Salgado «Ghiacciai» (nata da un’idea del Trento Film Festival, a cura di Lélia Wanick Salgado, prodotta in collaborazione con Contrasto e Studio Salgado), allestita nelle sale del Mart (Museo di arte moderna e contemporanea di Rovereto), fino al 21 settembre, e nel «grande vuoto» progettato da Renzo Piano al centro del Muse (Museo delle scienze di Trento), fino all’11 gennaio. Una raccolta di oltre sessanta fotografie in bianco e nero, in grande e grandissimo formato, scattate in ogni angolo del Pianeta – dalla Penisola Antartica al Canada, dalla Patagonia all’Himalaya, dalla Georgia del Sud alla Russia – e riunite nell’anno internazionale per la conservazione dei ghiacciai con l’obiettivo di evidenziare il ruolo chiave di questi giganti freddi nell’ecosistema. 

Niente di nuovo per il fotografo brasiliano scomparso lo scorso 23 maggio (Minas Gerais, 1944 - Parigi, 2025), che dagli anni ’70 ha seguito attraverso l’obiettivo temi sociali ed ecologici in oltre cento Paesi del mondo (su tutti il progetto «Genesis», dedicato alle regioni più remote del pianeta, e il progetto «Amazônia», per il quale Salgado ha vissuto diverse settimane nei villaggi della Foresta Amazzonica brasiliana). Ma perché una mostra proprio sui ghiacciai, considerato che essi ricoprono solo il 10% circa della superficie terrestre? Come mai queste distese di neve accumulata sono così importanti per l’ecosistema? «In primo luogo – chiarisce Elisa Palazzi – perché regolano il clima terrestre. Riflettendo molto efficacemente la radiazione solare, fanno sì che la superficie del pianeta non si scaldi troppo. Sono inoltre le “torri d’acqua” per le regioni di pianura: dai ghiacciai dipendono l’approvvigionamento di acqua potabile di due miliardi di persone e due terzi dell’agricoltura irrigua mondiale. Un terzo motivo è che i ghiacciai sono archivi climatici estremamente preziosi. Consentono di ricostruire l’evoluzione del clima passato andando a ritroso di centinaia di migliaia di anni. I ghiacciai, così come gli altri elementi della criosfera (che include le aree del pianeta dove l’acqua è presente allo stato solido), sono sentinelle del cambiamento climatico».

Dalla Patagonia alla Penisola Antartica

Rovereto (TN) ci accoglie in una fredda giornata di pioggia. Saliamo al secondo piano del Mart e, in pochi passi, percorriamo migliaia di chilometri. Atterriamo in Buthan, sulla catena dell’Himalaya, al cospetto di una grande morena (accumulo di detriti rocciosi) lasciata da un ghiacciaio in movimento (2006), poi voliamo su un ghiacciaio ricoperto di cenere vicino al vulcano dell’Isola Candlemas, nelle Isole Sandwich Australi (2009). Alle nostre spalle, una strana convergenza di nuvole e luce sembra formare una sorta di arcobaleno in bianco e nero sopra un ghiacciaio ai piedi del Cerro Torre, della Torre Egger e della Punta Herron, in Patagonia (2007). Il nostro viaggio procede sull’Isola di Zavodovskij, nelle Sandwich Australi (2009) dove ci attende una colonia di pinguini ripresa dall’alto. Restiamo in zona ed esploriamo, attraverso gli scatti di Salgado, l’Isola Bristol e l’Isola Bellingshausen

«Navigando» verso la sala successiva, ci viene incontro un grande iceberg alla deriva nel mare di Weddell (2005): è ricoperto di spigoli e di cavità. Salgado gioca con i toni di bianco e nero, sfrutta la potenza dei dettagli per raccontare gli effetti della progressiva erosione del Ghiacciaio Grey, nel Parco nazionale Torres del Paine, in Patagonia (2007). Riprende la fronte del ghiacciaio Viedma (2007) in una incredibile fusione di roccia, neve e ghiaccio, e trasforma una parete innevata nella Penisola Antartica in una sorta di architettura immacolata e imponente. Ma tra i ghiacci regna anche il movimento e, dunque, la vita. Ce lo ricorda il tuffo di un pinguino che si lancia in mare da un iceberg, sotto gli occhi dei compagni in fila dietro di lui (Isole Sandwich Australi, 2009), come pure lo sguardo di un piccione dei ghiacciai, accovacciato nella neve dell’Isola Bellingshausen (2009). 

«Non ho realizzato i miei reportage come avrebbe fatto un entomologo, o un giornalista – spiega Sebastião Salgado nel libro Dalla mia terra alla Terra (scritto con Isabelle Francq per Contrasto) –. Li ho realizzati per me, per scoprire il pianeta. E ne ho tratto un enorme piacere. Ho capito che il paesaggio è vivo. Con i minerali, i vegetali, gli animali, il nostro pianeta è vivo a tutti i livelli. Ho preso coscienza di quanto rispetto gli dobbiamo. Un rispetto immenso». La fotografia per il maestro è saper guardare, ma anche saper aspettare. Come quando immortala il momento esatto in cui una barca passa davanti al foro di un iceberg, nella Penisola Antartica (2005) o quando cattura il volo di un condor sopra il ghiacciaio Perito Moreno, in Patagonia (2007).

«Nella mia vita ho realizzato diversi racconti fotografici, reportage che narrano la nostra epoca e le sue trasformazioni. Ogni volta mi ci sono voluti vari anni per portarli a termine – spiega ancora Salgado –. Spesso si dice che i fotografi sono dei cacciatori di immagini. È vero, siamo come cacciatori che passano molto tempo a spiare la selvaggina, ad attendere che esca dalla tana. Fotografare è la stessa cosa: bisogna avere la pazienza di aspettare che accada qualcosa. Perché qualcosa accadrà, per forza. Nella maggior parte dei casi non si hanno i mezzi per accelerare gli avvenimenti. Bisogna quindi saper assaporare la pazienza». Concludiamo il nostro viaggio sul vulcano Klju?evskaja Sopka, nella penisola della Kamchatka, in Russia (2006), tra i pinguini della Georgia del Sud (2009) e nel Parco Nazionale e riserva di Kluane, in Canada (2011), dove Salgado ha scattato la foto-manifesto del Trento Film Festival e le dieci foto appese al Muse. 

Prima di lasciare le sale del Mart e dirigerci a Trento per l’ultima parte dell’esposizione, ci fermiamo in una saletta dove viene proiettata una selezione di film a tema, tratti dal Trento Film Festival. Si parte con Icemeltland park di Liliana Colombo (2020). Mentre sullo schermo va in scena il drammatico scioglimento dei ghiacci del Perito Moreno, fuori campo «wow» e grida commentano la scena. Sono le voci di turisti che, a bordo di una barca, assistono divertiti allo «spettacolo» e lo filmano pure. Come se le conseguenze del riscaldamento globale fossero un film, come se in ballo non ci fosse il futuro dell’intero pianeta e dell’umanità. Per dirla ancora con le parole di Sebastião Salgado nel libro Dalla mia terra alla Terra: «Abbiamo eretto barriere che ci separano dalla natura. Di colpo, non siamo più in grado di vedere, di sentire…». Tanto meno – aggiungiamo noi – di distinguere la verità dalla finzione. 

Che fare, dunque, per invertire la rotta? Come spesso accade, la risposta sta nel passato: «Ho contemplato la nostra terra dalle cime più alte agli abissi più profondi – conclude Salgado –: sono stato ovunque. Ho scoperto la parte minerale, vegetale e animale e, poi, ho potuto vedere noi esseri umani come eravamo all’inizio dell’umanità. Una contemplazione molto confortante, perché l’umanità delle origini è molto forte, particolarmente ricca di qualcosa che poi abbiamo perso diventando urbani: il nostro istinto. È proprio il nostro istinto che permette di sentire e prevedere molte cose, un cambiamento di temperatura o altri fenomeni climatici attraverso l’osservazione del comportamento animale. In realtà oggi, stiamo abbandonando il nostro pianeta; perché la città è un altro pianeta».

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Data di aggiornamento: 27 Giugno 2025
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