Scatti di verità
Come già altri artisti visivi del nostro tempo (Manoocher Deghati, Burtynsky), Luisa Menazzi Moretti visita i luoghi, incontra le persone rivelandone contraddizioni e fragilità. La fotografa globetrotter cresciuta in Texas sta dalla parte degli emarginati senza invasione di campo, a scopo documentaristico e di supporto fraterno. Tra i suoi progetti più recenti rientrano due ricerche antropologiche e sociali, documentate da tanti scatti fotografici sul Texas suburbano e disabitato, e sui migranti giunti in Italia come rifugiati. Chiariamo meglio i due contesti dei progetti intitolati Far Fading West e Io sono: da un lato lo stato rurale nel Sud dell’America, ricco e povero allo stesso tempo, meta di migrazioni (non solo quelle dall’America Latina) e di svuotamento dalle zone periferiche alle città, assieme alla guerra tra i poveri delle zone suburbane e delle periferie (metafora di quelle del mondo occidentale), e dall’altro i nuovi poveri, i richiedenti asilo, che fuggono da fame, miseria e cambiamenti climatici sperando di trovare fortuna altrove. «La gente fugge dalle periferie, abbandona gli spazi che vengono sempre più abitati da microcriminalità e persone indigenti – osserva Menazzi Moretti –. In questi nuovi spazi non c’è nulla, qualche fast food, la chiesa, e vi abita gente isolata a discapito della concentrazione nelle grandi città che stanno esplodendo. Houston è arrivata a quasi 2,5 milioni di abitanti mentre College Station, dall’altra parte del Texas, che è ai margini, ma che una volta era importante, è un “far fading West”, cioè un west che sta scomparendo».
Il suo studio sulle migrazioni l’ha portata a incontrare dei testimoni che hanno corso molti rischi. «In Italia la forte migrazione arriva dai Paesi sub-sahariani e dall’Est a causa di guerre che non conosciamo, e per la malnutrizione: se i nostri figli non avessero speranza, noi non faremmo lo stesso? I figli degli italiani non stanno andando via anche loro? La nostra società è vista come un miraggio, per noi non lo è più. Queste persone partono alla ricerca del meglio, dell’opportunità, ma quanti migranti sono partiti da soli! Noi sappiamo della traversata che è una piccolissima parte del viaggio, dove arriva a destinazione metà della gente. I ragazzi che attraversano il deserto, stanno sei mesi in Algeria come schiavi, in Libia vengono imprigionati e maltrattati solo perché sono neri. Se hanno la fortuna di saper fare un lavoro, questa è la loro salvezza. Ad esempio, uno che sapeva fare il piastrellista, dopo mesi di carcere, è stato preso a lavorare un anno completo ed è stato portato sulla costa. Tutto il tragitto dura molto di più: un uomo ha perso la moglie e il bambino durante il viaggio in barca. È rimasto con gli altri due bambini; i corpi dei familiari vennero ritrovati morti, e il funerale fu celebrato in Sicilia dove si rifece una vita. Abbiamo il concetto di persone non istruite invece molti hanno delle competenze. Questo (Menazzi Moretti mostra la foto, ndr) è un ingegnere, assunto in Basilicata come capo cantiere con i progetti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Ho svolto il lavoro fotografico quando era attivo lo Sprar. Se le cooperative erano brave, erano progetti validi e prevedevano il rispetto delle tradizioni e l’integrazione, a cui erano molto attenti, non inserendoli tutti nello stesso luogo, ma dividendoli nelle varie città, e dando loro delle responsabilità e quanto era destinato loro, con il controllo sulla frequenza scolastica, la tenuta delle case e fornendo aiuto per procurarsi i documenti, sostenendoli nel periodo in cui non potevano lavorare, coinvolgendoli in attività di volontariato per farsi apprezzare dalla comunità».
Menazzi Moretti è rimasta colpita dalle storie che ha raccontato con i suoi scatti. «Soprattutto quelle dei bambini coraggiosi: prima di giudicare, bisogna migrare. Anch’io sono stata migrante, a mio modo. Bisogna sapere cosa significhi vivere in un’altra realtà, mollare tutto e lasciarselo alle spalle. Oggi mandiamo i figli all’estero. Come può dire la gente che queste persone non devono venire qua? Hanno più visione di un futuro e usano ogni mezzo per far partire i figli. Provengono da luoghi in cui vi è una situazione di guerriglia non dichiarata». Anche nel progetto Io sono, Menazzi Moretti ha documentato tante storie. «Ero andata a vedere la realtà della Fondazione Città per la pace per i bambini della Basilicata, e i progetti della cooperativa Il Sicomoro che collabora con i migranti. Mi sono piaciute queste due realtà e ho chiesto se fosse possibile scattare delle foto ai migranti avendo conosciuto i volontari quando avevo fatto la mostra per Matera Capitale europea della cultura. Volevo fare delle foto per me. Ho scoperto delle storie incredibili di cui conservo audio e video. I testi delle presentazioni sono come le hanno raccontate loro, alcuni in inglese, e quindi ho provveduto con la traduzione in italiano. Ad esempio Joy mi ha parlato in un inglese sgrammaticato, per altre situazioni ho avuto un traduttore. Milan viene dal Nepal e si è lasciato convincere ad andare in Libia dove si è trovato male in una famiglia povera. Lavorava in un magazzino. Veniva derubato dai suoi padroni che lo pagavano e poi lo rapinavano. È salito su un barcone ed è arrivato in Italia. Gli sarebbe piaciuto diventare un parrucchiere professionista. È molto bravo in italiano e in matematica, e gli piace Dante Alighieri. Era minorenne, non scolarizzato ed è stato inserito in terza media. Invece Azeeza (nome di fantasia) è scolarizzato, proviene da una famiglia ricca della Nigeria, ed è stato anche a Dubai. Suo zio ha ucciso suo padre e tutti i fratelli, e la madre ha perso i beni della famiglia del padre. Lui si è salvato in quanto è stato portato al confine con la Libia. Messo in carcere, ha cercato di fare il parrucchiere per arrivare in Italia. Ci sono situazioni diverse all’interno di queste storie».
Storie di migranti
Le foto di Luisa Menazzi Moretti non interferiscono con i soggetti ritratti e non rappresentano un lavoro concettuale, ma sono dedicate ai migranti. «Ho messo meno filtri mentali e tecnici possibili, meno artifici. Hanno scelto loro la posa, hanno scelto se sorridere oppure no. Molti erano imbarazzati. Alcuni hanno pianto parlando della loro vicenda. Nonostante tutto, si è creato un rapporto. Vi racconto la storia di A. che ha trascorso due estati e sei mesi come baby sitter mentre l’uomo di casa la molestava. Poi è andata in Libia. A questo punto A. ha abbassato lo sguardo. Sicuramente è entrata nel giro della prostituzione. Non voleva parlarmi e così mi sono arrabbiata. “Ho fatto nove ore di viaggio e tu non mi vuoi parlare?” le ho detto. Dopo mezz’ora ha raccontato tutta la sua storia. Mi ha abbracciato come se si fosse liberata di un peso».
Ogni migrante ha in mano qualcosa nelle foto, qualcosa di importante per la loro storia. «Uno tiene un oggetto che indica che vorrebbe cucinare – sottolinea Menazzi Moretti –. Milan ha un libro, Said indossa un ciondolo con il pesce poiché il padre era pescatore. Sardar mostra il quaderno di matematica: era bravo a scuola, ma nel Belucistan afghano, da dove proviene, gli fu chiesto dai talebani di arruolarsi». Ognuno ha una storia diversa. «Mohamed e suo fratello furono bastonati dai Microbes d’Abobo, i baby criminali della Costa d’Avorio. E dovettero scappare. Mohamed non avrebbe mai voluto andarsene, ma fu costretto, e rischiò la vita durante il tragitto. Quanti sono morti durante il viaggio!». In ogni storia c’è un oggetto che poi si vede nella foto. «Ogni oggetto, appunto, è collegato alla storia. Wuyeh è partito a mezzanotte e mezza, orario che non può dimenticare, quindi mostra l’orologio al polso. Paul, dal Gambia, sogna di fare il prete. Ha visto tanta guerra nella sua vita, e desidera solo la pace». Com’è nato questo progetto fotografico? «Il Sicomoro e Città della Pace hanno letto le storie e hanno proposto di produrre il lavoro: una mostra con grandi ritratti e con i testi (nella versione didattica), e un’altra con dei libri dove ogni soggetto si confronta con le pagine bianche perché le loro storie sono pagine bianche (nella versione artistica)».
Far Fading West
Questo vuoto a cui Menazzi Moretti ha voluto dare un senso si ritrova anche in Far Fading West. «Dopo il progetto sulla pena di morte, ho continuato a prestare attenzione agli ultimi che vivono in una condizione di degrado. In molte parti del west statunitense la ferrovia non c’è più e tutto si concentra nelle grandi città. L’emigrazione è forte, e i luoghi si stanno svuotando. Ho prestato attenzione alle persone di origine messicana perché il Texas, in passato, era messicano. Gli ispanici sono numerosi, con una netta diversità tra ispano-americani che sono ricchi, razzisti e con un atteggiamento di superiorità nei confronti dei messicani emigrati senza permessi. La cosa in passato funzionava bene quando nel periodo estivo esisteva la possibilità per i messicani di venire a lavorare in Texas nelle piantagioni di mais, cotone e riso. Potevano fare la stagione e poi tornavano in Messico. Questa opportunità fu eliminata molto prima dell’arrivo di Trump. Però ha favorito l’immigrazione illegale e la ricerca di un mondo diverso, e ha generato un senso di solitudine e isolamento. La vita all’interno c’è, ma rimane chiusa e senza forme di socializzazione. Sembra un mondo mangiato dai tarli: strade spaccate come a Kingsville, edifici e fabbriche abbandonate. Nella hill country di Austin, nei campi estivi, i ragazzi recuperano le origini del vivere come gli indiani, a contatto della natura e senza tecnologie, senza aria condizionata, senza comfort. Esplorano le caverne, mangiano quello che pescano. Fanno gare a cavallo per stabilire chi diventa capo. In un’altra foto ritraggo il centro cittadino di Hearne, semi-abbandonato, una vera ghost town vicino a Bryan-College Station, sede dell’A&M, la più grande università americana pubblica con circa 80mila studenti». A&M sta per Agriculture and Mechanics ed è la sede del dipartimento di Ingegneria spaziale che sta studiando l’eventuale arrivo dell’uomo su Marte. Non dimentichiamo che a Houston c’è la NASA. E in una foto, Menazzi Moretti ha ritratto di spalle una finta Lady Liberty con sullo sfondo Calvert. Quasi la metafora di un’America in cerca di una nuova identità.
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