Sport, siamo tutti allo start
Chi ha un minimo di dimestichezza con lo sport, soprattutto di squadra, lo sa: ottobre è un mese delicato, perché entrano nel vivo i campionati, si olia l’intesa coi compagni e gli schemi di gioco, si comincia a fare «sul serio» dopo la pausa estiva e il rodaggio di settembre. Una dinamica che riguarda da vicino – secondo il Rapporto Italia in cifre 2015 dell’Istat – circa un italiano su tre (il 23 per cento) sopra i 3 anni, ovvero chi pratica con continuità almeno uno sport, con un picco tra i maschi 11-14enni (62,7 per cento).
Se ci aggiungiamo allenatori, dirigenti, genitori, tifosi, appassionati da partita in tv, il mondo dello sport coinvolge davvero la quasi totalità della nazione. C’è anche chi ne ha una crisi da rigetto: esagerato lo spazio che si prende l’agonismo esasperato, il doping, i milioni di euro spesi come fossero noccioline, il tanto look e la poca sostanza di troppi presunti campioni. Ma non bisogna nemmeno lasciarsi prendere dallo sconforto: le luci della ribalta del professionismo – calcio sempre, altri sport solo di tanto in tanto – rischiano di lasciare nel cono d’ombra il molto altro che lo sport è, la sua dinamicità e il suo imprescindibile Dna di valori.
Per allargare l’orizzonte abbiamo scelto un punto di vista privilegiato, quello del Centro sportivo italiano, l’associazione nata all’ombra dei campanili che conta 13.500 società sportive in rappresentanza di oltre 1 milione di atleti distribuiti in tutto il territorio italiano. A guidarci nel Csi è l’assistente nazionale, don Alessio Albertini, un cognome una garanzia nell’ambiente, visto che il fratello è Demetrio, indimenticato centrocampista del Milan e della nazionale, già vicepresidente della Federcalcio. E se don Alessio è l’assistente, il capitano è ancora più importante: nel delicato ruolo il Csi ha scelto direttamente papa Francesco che nel 2014, nel settantesimo della fondazione dell’ente, ha tracciato la rotta: «Da capitano vi sprono a non chiudervi in difesa (…), ma a venire in attacco, a giocare insieme la nostra partita, che è quella del Vangelo». Come si gioca in attacco, nella stagione appena iniziata? Intanto studiando il calendario, che prevede dall’8 dicembre un tempo caldo, quello del giubileo. «È una grande opportunità anche per il mondo dello sport – sostiene don Alessio –, che ha urgente bisogno di misericordia e conversione per preservare la sua bellezza e rilanciarsi». La seconda risposta è già nelle parole del Papa: insieme.
Dice don Albertini: «Poche esperienze umane come lo sport sanno unire tante persone. Dobbiamo puntare su più incontro e meno supremazia. Più gratuità e meno guadagno. Più gioco e meno vittoria a ogni costo. Dobbiamo ridare il giusto peso allo sport, che non è né il senso né il tutto della vita. Lo sport è fatto di uomini, che sono tutti, ma proprio tutti, amati da Dio. Anzi, se il Signore ha uno sguardo particolare è proprio per gli scarti e gli avanzi». Gli slogan e le carte internazionali dei diritti affermano che «lo sport è per tutti»: a volte sembra invece che sia solo per i più portati, mentre gli altri è meglio si limitino a sognare giocando alla playstation… «Non è per tutti il professionismo – precisa don Alessio –, ma è per tutti il correre dietro un pallone, il trovarsi per giocare e divertirsi. Lo sport dovrebbe aiutarti a uscire dalla logica tecnologica del sedentarismo e dell’anonimato, indicando traguardi che sono conquistabili attraverso la fatica e l’impegno. In uno sport che valorizza solo il campione, di scarti ce ne sono tanti. Il Centro sportivo italiano vuole prendersi cura anche di quelli che il vertice scarta e lascia ai margini».
Ma la proposta Csi non è solo un salvagente per chi non riesce altrove: l’approccio di base punta a non produrre «avanzi», a essere includente a tutto tondo, in maniera propositiva, come dimostrano i tre progetti presentati nelle prossime pagine, esempi di intraprendenza sportiva e sociale a vantaggio dell’intera comunità. Niente di strano, si potrebbe pensare, perché dallo sport sembra ovvio attendersi grande dinamicità e creatività. O forse non è così? «Magari – commenta don Albertini –. Queste attività sportive si distinguono per aver scelto come punto di partenza il “perché” organizzarle anziché, come spesso accade, il “che cosa” e il “come”, copiando malamente certi schemi del professionismo. Puntare sul “perché” significa riscoprire la missione educativa dello sport, una pratica che, se ben vissuta, ti fa crescere come persona, insieme con gli altri. L’allenatore in questo è decisivo. Nella fase cruciale della preadolescenza è l’unica figura educativa adulta che viene seguita praticamente in qualsiasi cosa dica o faccia. Un tecnico è in genere giudicato per i risultati, per quanti atleti ha saputo far emergere. Invece bisognerebbe riparlarne dopo vent’anni: vediamo che uomini quei ragazzi sono diventati, allora sì capiremo la grandezza di quell’allenatore». La conclusione don Alessio la introduce con una citazione di Henry Ford, fondatore dell’omonima casa automobilistica: «Se avessi chiesto ai clienti che cosa volevano, mi avrebbero risposto “un cavallo più veloce”». «Invece ha realizzato qualcosa di completamente nuovo. A volte bisognerebbe avere questo coraggio, anche nello sport».
Il coraggio di Bergamondo Il coraggio non è certo mancato a chi ha messo in piedi Bergamondo, il mondiale di calcio della bergamasca. D’accordo, è «solo» un torneo, ma è davvero «mondiale». Venti squadre nazionali (più altre otto ai preliminari); seicento atleti che disputano cinquanta partite su otto campi da gioco tra Bergamo e provincia; circa 10 mila spettatori. Sono numeri, ma non dicono ancora l’aspetto più intrigante: le squadre sono rappresentative dei gruppi di migranti che vivono nel territorio. Evidenti i risvolti positivi: solo una compagine alza la coppa destinata a chi si aggiudica la finalissima (l’ultima è terminata 3 a 2 per il Burkina Faso sul Senegal), ma a vincere sono tutti, in termini di integrazione, rispetto, conoscenza, accoglienza.
Questi «valori olimpici» di solito li si rispolvera solo, appunto, alle Olimpiadi e solo per gli atleti, mentre a Bergamondo sono di casa dentro e fuori dallo stadio, con non effimere ricadute in termini di coesione sociale. Il meccanismo è ormai rodato, e infatti la prossima edizione sarà la decima, per la quale gli organizzatori – in primis il gruppo Sesaab, editore de «L’Eco di Bergamo», il Credito Bergamasco e il Csi – promettono novità significative. È Vittorio Bosio, presidente del Csi locale, a rievocare le origini del progetto: «All’inizio abbiamo fatto qualche fatica, ad esempio per trovare gli impianti dove disputare le partite, ma in generale il territorio ha risposto bene, sia a livello istituzionale che di base, e ora ormai sono gli stessi gestori degli stadi a venirci a cercare per ospitare la manifestazione». Infatti Bergamondo è itinerante, tra la città e l’hinterland, proprio per valorizzare la sua vocazione sociale e coinvolgere le comunità italiane locali. E tuttavia, bisogna uscire dallo schema bipolare tra «noi italiani» e «loro migranti», un corpo compatto per quanto indistinto.
Niente di più fuorviante, come testimonia Bosio: «La scommessa è stata mettere insieme le comunità etniche a ragionare tra di loro. Non è stato facile. Faccio un esempio: non so perché, ma i senegalesi della Val Seriana faticavano a incontrarsi con quelli della pianura… Anche tra gruppi diversi di africani non c’era accordo. Oppure è accaduto che alcune comunità non riuscissero a trovare l’intesa per formare un’unica squadra. In tutti questi casi ci siamo calati nelle vesti dei mediatori. Oggi i risultati si vedono. Il torneo ha insegnato a mettersi in dialogo, a creare legami positivi, sotto l’egida di Bergamondo». Che non si chiude al triplice fischio dell’arbitro. «È una soddisfazione – conclude Vittorio Bosio – avere alcune comunità, come Bolivia, Romania, Senegal, Costa d’Avorio, che hanno un loro team nazionale iscritto ai campionati Csi durante tutto l’anno».
I volontari di «Csi per il mondo» Il calcio ci ha abituato a pensare a uno sport globalizzato, specie per i tanti – troppi? – giocatori stranieri importati. Pochi invece gli atleti nostrani oltreconfine, ma… l’Italia può contare su ben altro sport da esportazione. Anzi, come dicono al Csi, da «e-Sport-azione». Di che cosa si tratta? Ne parla Valentina Piazza, responsabile del progetto «Csi per il mondo»: «Come ente abbiamo sempre sostenuto campagne di solidarietà, devolvendo i fondi raccolti tra le nostre società ad associazioni che operano in loco. Così accadde per Haiti, in seguito al terremoto del 2010. Quando ci recammo sul posto per verificare che cosa era stato realizzato, cominciammo a chiederci: perché non coinvolgerci direttamente con un progetto sportivo, visto che è quanto sappiamo fare meglio?». È il primo seme di quello che nel giro di poco diventa «Csi per Haiti», iniziativa che negli anni si è sviluppata anche in Camerun, Albania, Repubblica Centrafricana. Un allargamento che ha imposto anche un cambio di nome: ecco «Csi per il mondo».
«In pratica – spiega Piazza – facciamo due missioni l’anno nel Paese interessato. D’inverno formiamo gli allenatori, d’estate invece, con il coinvolgimento dei volontari italiani, impostiamo attività sportive, dove logisticamente è possibile, e di animazione, nello stile dell’oratorio. Per esempio ad Haiti quest’anno eravamo in una ventina di italiani impegnati in tre località, e accoglievamo ogni giorno circa 850 bambini dai 3 anni in su». Alcuni volontari sono anche molto giovani: «Si parte in genere con una domanda di senso – rivela Valentina –, chiedendosi se c’è qualcosa di più della routine di tutti i giorni. E si torna cambiati, portandosi dietro una mutata visione della vita». I risultati sono personali, ma anche comunitari, soprattutto ad Haiti, dove da più tempo il Csi lavora: «Sono nate cinque squadre di calcio, di cui una femminile, e una squadra di pallacanestro. Quest’estate poi abbiamo introdotto la pallavolo. Il nostro obiettivo è che i giovani allenatori, una volta formati, possano sganciarsi da noi e creare una sorta di nuovo Csi nel loro Paese, aiutando così tanti ragazzi a crescere».
Riunione di sport… condominiale Non molti fanno salti di gioia quando è il turno della riunione condominiale. La si associa più a «seccatura» che a «benessere». A Bologna, invece, si sono inventati incontri di condominio dove si entra col sorriso e si esce magari un po’ affaticati, ma soddisfatti. Qual è il trucco? Nessun espediente: solo un mix di lavoro di squadra, iniziativa, inventiva. All’insegna dello sport per tutti. Negli spazi comuni di alcuni condomini di Bologna (ma anche di Ferrara e Imola), allenatori ed esperti del Csi e dell’Usl hanno coinvolto i residenti in percorsi di sport pratici e teorici, specifici e adatti a tutte le età.
Da dove nasce questa idea? Risponde Elena Boni, vice presidente del Csi felsineo: «La frenetica vita in città impone di stare fuori tutto il giorno. Si rincasa la sera stanchi e senza la voglia di uscire ancora. Risultato: ci si affloscia sul divano, isolandosi dagli altri. Allora ci siamo detti: se le persone non hanno le energie per venire da noi, perché non andiamo noi da loro?». Detto fatto: rispondendo a un bando regionale, il Csi si organizza. Entra in contatto con alcuni «facilitatori» all’interno dei condomini, che condividono il desiderio dell’ente di «rianimare» la vita dell’immobile (sostantivo in questo caso davvero azzeccato…) attraverso lo sport, e pian piano si fanno i passi necessari per rendere nuovamente «comuni» gli spazi altrimenti solo «di servizio». Il tutto con l’ausilio di laureati in scienze motorie, ma senza alcun onere per i residenti. In alcune realtà è stata fondata una vera e propria società sportiva di condominio, utile per organizzare le attività, ma l’obiettivo è più semplice ed è riassunto nello slogan «Datti una mossa!». Poi, un’attività tira l’altra. Così, provare una disciplina può diventare, specie per i più giovani, l’aggancio per prendere contatto con la società sportiva che la propone. «Il bello di questa iniziativa è che è facile replicarla anche altrove» conclude Boni. La sfida è lanciata, basta… «darsi una mossa!».