Tra due famiglie
«Quale mamma? Quale casa? Sembra che nelle mie vene circolino due sistemi venosi con due sangui». Ecco il dilemma di Gholam Najafi nell’autobiografia che prosegue e amplia il suo primo libro, Il mio Afghanistan, in cui aveva percorso la sua vicenda di ragazzo che scappa dal Paese d’origine e giunge in Italia, ormai diciottenne, dopo un viaggio drammatico ed estenuante, specialmente nei passaggi di frontiera. Se il primo scritto era in larga parte una cronaca degli eventi, nel secondo si nota un salto di qualità, sia nello stile sia nel contenuto: il suo faticoso inserimento nella realtà italiana, mediato dalla nuova famiglia che lo accoglie, viene presentato con grande profondità introspettiva mettendo in luce, da un lato, la difficoltà di entrare pienamente nel nuovo mondo e, dall’altro, il desiderio di imparare la lingua per comunicare ciò che riempie il suo cuore.
È il dramma di un poeta senza parole, incapace di esprimersi: gli anni di scuola, presso l’istituto alberghiero, sono frustranti («vergognati», scrive una professoressa come commento alla prima verifica del quarto anno) ma allo stesso tempo sono una provocazione per migliorare. La sua vita è molto impegnata: lavora per mantenersi, si nutre delle relazioni con i nuovi famigliari (in particolare la mamma, i fratelli e i nonni) ai quali è sempre riconoscente, pur faticando a dirlo. Emerge progressivamente la sua anima poetica, di cui ci dà dei saggi all’interno del testo: impara a fatica a leggere, ma si appassiona dei libri, fino a decidere di intraprendere gli studi universitari di letteratura persiana e arabo. Due viaggi lo riportano nella sua terra d’origine, alla ricerca della madre naturale e delle sue radici. È un’avventura che diventa soprattutto un cammino interiore che, finalmente, attraverso questo libro, Gholam è riuscito a raccontare.