Uganda: luci e ombre
L’Uganda è seducente. Nazione dalle molte bellezze e dalle altrettante contraddizioni. Non a caso Winston Churchill definì questo Paese, nel cuore della regione dei Grandi Laghi, la «Perla d’Africa». Ai tempi del celebre statista, l’Uganda era ancora un protettorato britannico. Sta di fatto che la vitalità degli oltre quaranta gruppi etnici che la popolano ben si sposa con l’esuberanza della natura. Nel settore centro-meridionale, l’Uganda sembra essere un orto botanico senza confini, con una vegetazione lussureggiante. Nella zona settentrionale s’incontrano invece immense savane.
Padre Pontian Kaweesa, direttore delle Pontificie Opere Missionarie in Uganda, intervistato di recente dall’agenzia «Fides», ha tratteggiato il volto di una nazione in cui anche la religiosità è lussureggiante: nel Paese (il più giovane del mondo, visto che l’età media dei 45 milioni di abitanti è di 16 anni) i cattolici sono circa il 40 per cento. La maggior parte dei vescovi sono indigeni e, soprattutto, le vocazioni sono abbondanti e la partecipazione alla vita religiosa è alta.
L’Uganda divenne indipendente il 9 ottobre 1962. Dopo anni di forte instabilità politica – quando il Paese venne governato dal dittatore Idi Amin Dada – nel 1986 prese il potere il presidente Museveni il cui regime è autoritario. Oltre all’agricoltura, il Paese possiede consistenti giacimenti petroliferi, in via di sfruttamento. Nella regione nord orientale del Karamoja, la manovalanza locale serve per sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo che vanno dall’uranio al cobalto; dall’oro all’argento; dalla grafite al platino.
«La nostra gente viene lasciata entrare liberamente nelle miniere a cielo aperto. Tutte persone che restano fino a 10 ore al giorno sotto al sole, malpagate e a cottimo». A parlare è monsignor Damiano Guzzetti, vescovo di Moroto, il quale precisa che i lavoratori in questione sono persone rese invisibili dall’assenza di garanzie contrattuali. L’Uganda è anche questo! Imprenditori, commentatori, politici ed economisti si lamentano: i giovani non vogliono più lavorare. Rifiutano i posti che vengono loro offerti, sia quelli fissi che quelli precari. Spesso li abbandonano. Un fenomeno imprevisto, inedito.
Come è potuto avvenire? Si tentano analisi, si cercano spiegazioni. Una – sotto gli occhi di tutti – è il basso livello dei salari. L’Italia è il fanalino di coda dei Paesi europei. E, tuttavia, questo non basta a spiegare il fenomeno. Per capirne i motivi dobbiamo andare più a fondo e scavare nei cambiamenti culturali – oltre che sociali ed economici – del mondo produttivo. Da almeno quarant’anni il lavoro come costruzione di identità e ruolo è stato svalutato e disprezzato: l’occupazione fissa, regolare, era considerata retaggio di un passato non più proponibile e chi aspirava a uno stipendio fisso in cambio di impegno e professionalità, uno sprovveduto, inadeguato al nuovo. Questo, infatti, non richiedeva impegno, coinvolgimento, ma flessibilità, precarietà, disponibilità e, naturalmente, paga minima. Di conseguenza, il lavoro era declassato a momento secondario dell’esistenza, subordinato alle necessità e alla libertà del mercato.
Una cultura, quella dei padri e dei nonni, è stata scardinata. I giovani sono cresciuti all’interno di un modello ideologico e culturale che ha cambiato priorità, prospettive. Ed ecco le conseguenze: si adeguano alla precarietà, accettano un posto e un basso salario ma solo se costretti e per un tempo limitato; lo rifiutano se interferisce troppo nella loro esistenza, si appoggiano alla famiglia, prendono le distanze, non danno nulla di più del necessario. Quando la vita si contrappone al lavoro, scelgono la vita. Gli imprenditori, i giornalisti, i commentatori, gli economisti, i politici che oggi si lamentano sono gli stessi che, in questi anni, hanno esaltato la libertà del sistema produttivo, la flessibilità e la precarietà indispensabili alla competizione e alla globalizzazione. Convinti che avrebbe creato obbedienza, subordinazione e abnegazione, facendo prosperare le imprese e tagliando le ali a ogni pretesa.
Non è successo, almeno non nelle forme volute. I giovani vanno all’estero per cercare un lavoro che sia apprezzato o, almeno, giustamente remunerato o rimangono in Italia ma si preservano. Fanno i loro conti. Il mercato è mobile, cambia, il lavoro c’è, non c’è, poi c’è di nuovo. È la libertà, hanno detto per tanti anni. E loro pensano giustamente che possa esserlo anche per loro. È avvenuto così che la politica dell’usa e getta abbia provocato il disincanto. Che l’inno alla libertà abbia funzionato anche per chi ne doveva essere vittima. Ora chi ha provocato il danno è preoccupato. Ha ragione a esserlo e a cercare delle soluzioni. Rivedere i modelli finora proposti ed esaltati è complicato, ma le soluzioni non possono essere fragili escamotage. Non ci crederebbe nessuno, tanto meno i giovani.
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