Un tesoro nel cuore della Sanità
C’è chi lo ricorda come il luogo di nascita di Totò. Chi l’ha riconosciuto in qualche inquadratura della serie tv Gomorra. E chi – saltando a piè pari dalla fiction alla realtà – lo associa direttamente agli episodi di microcriminalità e degrado che balzano spesso agli onori della cronaca. Basta digitare «rione Sanità» su Google per capire quanto ancora il quartiere napoletano sia vittima del suo passato. «Fino a pochi anni fa se non avevi un buon motivo per andare alla Sanità non ci andavi» precisa Luigi Malcangi, referente territoriale Save the children della Campania. «Un luogo dove gli spazi verdi, i parchi pubblici, le strutture sportive sono inesistenti. Non c’è un cinema nel quartiere, l’ordine pubblico è al limite della decenza e la mobilità interna e verso l’esterno è ridotta all’osso». Sarebbe facile fermarsi a questa descrizione, etichettando l’area come «off limits».
Ma il Rione Sanità è molto altro. Lo ha intuito l’architetto Renzo Piano che, per il suo progetto di rigenerazione urbana G124, ha inserito il quartiere napoletano tra le periferie da rammendare nel 2022. Per non parlare di Mario Draghi che, lo scorso marzo, in visita nella Basilica di Santa Maria della Sanità, ha elogiato il modello di sviluppo inclusivo avviato dagli oltre trenta enti no profit (cooperative, associazioni, gruppi parrocchiali…) che oggi fanno rete nel quartiere. «Il Rione Sanità – ha sottolineato Draghi – è il simbolo di una comunità che sa dare speranza ai suoi giovani». Come? Favorendo la crescita socio-economica del territorio, stimolando il senso civico, creando opportunità di sviluppo e riscatto sociale. Ma prima ancora, valorizzando l’eredità del passato.
«Smarrire il proprio passato significa perdere il proprio futuro» ha detto l’architetto cinese Wang Shu, premio Pritzker 2012. Lo sa bene la famiglia napoletana Martuscelli che, dallo scorso luglio, dopo un minuzioso restauro, ha deciso di aprire al pubblico il proprio tesoro sepolto in via dei Cristallini 133, a 11 metri sotto terra. Scoperto nel 1889 dall’allora proprietario del palazzo, il barone Giovanni di Donato, che decise di scavare in cantina in cerca di acqua e tufo, oggi l’Ipogeo dei Cristallini costituisce una rara testimonianza di pittura e architettura ellenistica nel cuore del Rione Sanità di Napoli. «Aprire l’Ipogeo ai visitatori di tutto il mondo fino a qualche anno fa sembrava un’operazione impossibile – spiega la direttrice Alessandra Martuscelli –. E invece abbiamo creato un gruppo di lavoro straordinario per un progetto che avesse un importante impatto culturale e sociale sia sul territorio sia nell’ambito dell’archeologia e della cultura in generale».
Cofinanziato dalla Regione Campania e coordinato dalla Soprintendenza Archeologica, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli, in collaborazione con l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma, il programma mira a offrire «a tutto il pubblico la possibilità di vivere un’esperienza culturale ed emotiva unica». L’apertura dei quattro sepolcri scavati nella roccia e tornati alla luce dopo 2.300 anni di oblio rappresenta, inoltre, un nuovo tassello che va ad aggiungersi all’operazione di recupero del Rione Sanità iniziata nel 2000 dall’allora parroco della Basilica di Santa Maria della Sanità, padre Antonio Loffredo. «Il desiderio – continua Alessandra Martuscelli – è che i quattro spazi dell’Ipogeo possano svelare ai visitatori un mondo ancora vivo, un viaggio nel tempo, per contemplare la bellezza dell’arte, per comprendere il significato della vita e della morte, dell’amore e della cura, della famiglia e dell’amicizia. Perché l’Ipogeo dei Cristallini è pieno di storie da raccontare».
Sotto la superficie
A questo punto sorge spontanea una domanda. Ma cosa ci fanno quattro sepolcri nei sotterranei del Rione Sanità? Nulla di strano, ci insegna la storia. In realtà, tutto il quartiere napoletano, fondato alla fine del XVI secolo in una zona agreste fuori dalle mura, sorge su un imponente luogo di sepoltura. Prima dei palazzi e del cemento, qui, nella cosiddetta «area dei Vergini», trovarono collocazione, a partire dal IV secolo a.C., una necropoli greco-romana, delle catacombe cristiane (come quelle di San Gennaro, San Gaudioso e San Severo) e, dal 1656, il cimitero delle Fontanelle, che custodisce i teschi delle «anime pezzentelle» morte di peste e colera.
«L’Ipogeo dei Cristallini è un contesto speciale perché rivela il cuore antico che batte nel quartiere della Sanità – conferma Luigi La Rocca, Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Napoli –: sotto le strade della città, quelle che ne scandiscono la forma contemporanea, da vico Traetta a via Santa Maria Antesaecula, a via Cristallini, si nasconde una fitta sequenza di camere funerarie di epoca greca, sostanzialmente intatte, che un viaggio di circa 23 secoli ha condotto fino a noi (…). L’Ipogeo dei Cristallini è il più noto e compiutamente indagato, quello che ci ha restituito i segni, dipinti, dell’adesione a forme di religiosità misteriche e iniziatiche legate a Dioniso. Ma soprattutto, è un sito archeologico che, sebbene a più riprese studiato e analizzato, continua a rivelare dettagli e nuovi dati sui riti e le pratiche funerarie, sulle forme e l’organizzazione delle botteghe di artigiani che hanno lasciato nelle camere dei Cristallini le più interessanti testimonianze dell’ellenismo meridionale in una città che non smette mai di stupire».
Scendendo i gradini che portano ai sepolcri si ha l’impressione di essere catapultati in una dimensione antica quanto reale e viva. Viva come i pigmenti di blu egizio, giallo ocra, magenta e viola che compongono gli affreschi alle pareti (in particolare nel sepolcro meglio conservato, dove si distinguono una testa di Medusa e una scena raffigurante Dioniso e Arianna). Tra ghirlande, bassorilievi ed effetti di trompe l’oeil, il tesoro dell’Ipogeo non finisce qui. A queste camere sotterranee appartengono anche circa 700 manufatti – perlopiù vasellame e terrecotte – che costituivano il corredo funebre dei defunti e che ora abitano le sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (MANN) nella sezione «Napoli antica». Ma se questi reperti dormono sonni tranquilli in ambienti protetti e climatizzati, nelle sale dell’Ipogeo dei Cristallini – complici l’elevata umidità, le basse temperature, i flussi d’aria e i sali solubili che disgregano gli intonaci e incrostano le murature – la conservazione delle opere risulta molto più complicata.
«Gli ambienti ipogei, cioè sotterranei, per l’eccezionalità delle loro condizioni climatiche, sono luoghi complessi da gestire, perché proprio la stabilità di queste condizioni è il fattore essenziale che garantisce la conservazione nel tempo dei dipinti e degli apparati ornamentali. L’ingresso dei visitatori costituisce, dunque, un elemento che può mettere a rischio questa preziosa stabilità – racconta Alessandra Marino, direttrice dell’Istituto Centrale per il Restauro, che ha curato i lavori all’interno dell’Ipogeo –. L’obiettivo del nostro lavoro è stato, e continuerà a essere, quello di contribuire a individuare le migliori condizioni di equilibrio tra le inderogabili esigenze della conservazione e la naturale vocazione dei beni culturali a trasmettere i valori di cui sono testimonianza».
Un lavoro in divenire, dunque, iniziato nel 2021 con una serie di indagini chimiche, fisiche e biologiche riferite alla storia dell’edificio, ai materiali e alle tecniche di costruzione, al comportamento nel tempo e ai meccanismi di degrado in atto. Ben venga la tecnologia quando si mette al servizio dell’arte per il bene (e il piacere) di tutti. Ma se oggi noi possiamo ammirare dal vivo le meraviglie dell’Ipogeo dei Cristallini, scienza a parte, il merito va anche a un anonimo archeologo che qualche anno fa mise la pulce nell’orecchio al proprietario Giampiero Martuscelli e alla sua famiglia: «Ci aveva chiesto di far visita all’Ipogeo – ricorda Alessandra Martuscelli –. Dopo essere entrato nella più bella delle quattro sale, con una spontaneità sorprendente, esclamò: “Quanta bellezza, io vorrei vivere qui!”. Fu allora che ci rendemmo conto che era arrivato il momento di occuparci di questo luogo per troppo tempo rimasto chiuso. L’arte appartiene a tutti, e chi gestisce un bene così ha il dovere di renderla comprensibile e accessibile».
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