10 Luglio 2020

Venezia, la casa di Francesca

Le città non diventano comunità se si pensa solo a bed & breakfast e alberghi, o se gli affitti sono impagabili. Le città sono fatte dai loro abitanti.  

Scritta su un muro di Venezia.

Ho amici che non potrò più andare a trovare a Venezia. Stanno per lasciare la loro casa. Vi abitavano in quattro, fin dagli anni della università. Arrivati da studenti, si erano innamorati della città e vi erano rimasti. Lavoravano come guide turistiche, in osterie, in università per stranieri. La pandemia li ha scacciati. No, non è stato il virus: il Covid ha solo svelato una realtà che era sotto gli occhi tutti.

Mi dice Francesca: «Venezia muore di turismo. Venezia muore senza turismo». E io rimango silenzioso. Ricordo alcune cifre che sempre mi sono sembrate impossibili: 24 milioni di turisti l’anno scuotevano la città prima dei mesi del virus. L’88 per cento non era italiano. Quest’anno: niente statunitensi, niente russi o cinesi. Nessuno parla più dei tornelli messi per limitare l’accesso dei turisti alla stazione di Santa Lucia o al ponte di Calatrava. Forse il mondo, fra mesi e mesi, riaprirà le sue porte. Riappariranno i turisti? Vogliamo che riappaiano? Vogliamo che un milione e mezzo di croceristi invadano una città fragile?

Qualcuno se lo chiede a Venezia. Altri se lo chiedono a Firenze, la mia città. Se lo domandano a Matera, luogo straordinario appena arrivato fra le mete-star del turismo internazionale. Il turismo, raccontano, è (era) il 13 per cento del Pil italiano. Quest’anno mancheranno 23 miliardi di fatturati. 420 mila posti di lavoro a rischio (già perduti?) a leggere i rapporti di Confcommercio.

Che possiamo fare? Io penso alle barche a remi e alle gondole che, in un giorno dello scorso giugno, si sono ritrovate nel Canal Grande: i rematori si sono goduti il fresco, la felicità dei veneziani di ritrovarsi in acqua nei mesi caldi per afferrare la delizia della brezza marina. Non accadeva da anni e anni. Prima della pandemia, sarebbe stato impossibile: il traffico affollato di motoscafi e traghetti non avrebbe consentito di remare in santa pace fra la bellezza di Venezia. E ben prima del virus, da anni e anni, gli abitanti indigeni di Venezia erano stati cacciati dalla loro città dall’economia del turismo.

E allora? Francesca se ne andrà a fine agosto, un’ultima estate veneziana. Lei e i suoi amici non possono più sostenere le spese di un affitto. La città perderà alcuni dei suoi nuovi cittadini innamorati. «Abbiamo tra le mani, sotto i piedi e negli occhi la città forse più vivibile al mondo – scrivono i librai della Marco Polo, bella libreria di campo Santa Margherita – chi non vorrebbe venirci a vivere?». Come ricreare una comunità di nuovi abitanti? Interrogativo che vale per il centro storico di Firenze come per i Sassi di Matera.

Chi ha scelto di vivere a Venezia, lo ha fatto perché viveva bene fra gradini, ponti, canali e traghetti. Città «supersostenibile» dice Francesca. Il caro-affitti, deriva di un’economia piegata solo al turismo, ha reso impossibile viverci. Venezia, dopo aver cacciato i suoi vecchi abitanti, allontana i suoi studenti, li costringe a vivere a Mestre, a Padova, dissuade chi vorrebbe venirci ad abitare, respinge i nuovi cittadini. Il virus è una grande cartina di tornasole, mette a nudo: rivela fragilità, crepe, inganni, avidità, sotterfugi, disequilibri. Le città non diventano comunità se si pensa solo a bed & breakfast o ad alberghi. O gli affitti diventano impagabili. Le città sono fatte dai loro abitanti.  

Che fine farà la casa lasciata da Francesca e i suoi amici?

 

 

 

 

 

 

Data di aggiornamento: 10 Luglio 2020
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