Volpe Azzurra e Cane Giallo
Era da tempo che Giancornelio sentiva parlare dal padre, nelle coccole che precedevano la buonanotte, di una comunità di «coccodrillini» malati e bisognosi di assistenza sanitaria, che vivevano nell’impervia area dell’«Anca maledetta». Quel luogo sperduto nella foresta pluviale, infestato da tafani e zanzare, era anche la dimora di due acerrime tribù: i Dayak e i Puka Puka. Il piccolo «Giangian» aveva sentito parlare anche di due instancabili «missionari» della giungla: Volpe Azzurra e Cane Giallo. Più ascoltava più lavorava di fantasia. Immaginava di addentrarsi nella foresta. Voleva vedere il mondo con i suoi occhi. Voleva toccare quella realtà con le proprie mani, aggrappato a un’ancora sicura: il padre.
Padre e figlio partirono presto la mattina successiva, la bruma non si era ancora dissolta del tutto quando, con la singhiozzante Panda bianca, percorsero la via che attraversava il piccolo villaggio di Rognello. La strada asfaltata, dopo una lieve discesa e una strettoia che conduceva all’antico ponte a schiena d’asino lastricato di ciottoli, si perdeva in una serie di curve fino a sfumare nel nulla di un piccolo parcheggio sterrato. Una locanda, conosciuta come «casa del Vunciun», era l’ultimo avamposto prima della grande foresta. Da quel punto si poteva procedere solo a piedi. Il padre, dopo aver fatto un paio di manovre per parcheggiare l’auto, spense il motore. Giancornelio fremeva, si era già slacciato la cintura di sicurezza che lo ancorava al seggiolino sul sedile posteriore. L’adrenalina aveva preso il sopravvento, il piccolo stava per realizzare il suo grande sogno: conoscere il mondo incantato delle favole.
Con uno scatto felino Giancornelio balzò sul terreno infangato e sprofondò con i piedi fino alle caviglie. Ma non ne fu turbato, forse non se ne accorse neppure. Aprì il baule dell’auto ed estrasse l’equipaggiamento per la grande avventura: zainetto verde militare a tre tasche, che caricò immediatamente sulle spalle. Fucile in plastica doppia canna, che si mise a tracolla. Un pugnale in gomma e uno in legno auto costruito, che fissò alla cintola dei pantaloni. Bussola, binocolo, borraccia gialla in metallo riempita fino all’orlo con acqua, una scatoletta di tonno e una confezione di cracker salati. Padre e figlio camminarono verso sud per qualche ora, calpestando il sentiero che li avrebbe portati nel cuore dell’avventura, fino a raggiungere la tanto agognata «Anca maledetta».
La dimora degli acerrimi Dayak e dei feroci Puka Puka era ormai a portata di mano, ma degli «omini» della foresta non si poteva percepire nemmeno l’ombra. Giancornelio non guardava mai dove metteva i piedi, il suo sguardo era sempre rivolto verso l’alto: cercava tra le fronde degli alberi un segnale di vita. Il fiore rosso, dove era ancorata la lancia di Volpe Azzurra e Cane Giallo, nonché meta dell’escursione, era ancora lontano. Serviva un’ulteriore dose di energia per alimentare la fantasia del racconto. Man mano che i due avventurieri si avvicinavano alla palude dell’Anca, il terreno diventava sempre più impervio. Le vibrazioni delle frasche cullate dal vento creavano un armonioso frastuono. La favola prendeva forma lentamente. Andavano avanti senza fretta, gli esploratori. Senza lasciare traccia.
Il papà aveva premesso a Giancornelio che l’incontro con la volpe e il cane non era scontato. I protagonisti della fiaba sarebbero potuti essere in viaggio, lontani dal fiume Azzurro. Ma la tenacia del piccolo non dava segni di sconforto. Non smetteva mai di essere vigile. A ogni rumore sospetto ruotava su sé stesso di 360°. Gli oscuri e misteriosi guerrieri sapevano nascondersi sulle cime più alte delle robinie, conoscevano trucchi antichi per cancellare anche le ombre più sbiadite. Nessuno avrebbe avuto la capacità di scovarli. Questa era la loro inespugnabile casa.
Per i due viandanti non era una giornata come le altre, l’indescrivibile fruscio fatto di amore e complicità guidava le menti nel sottile confine tra la realtà e il sogno. L’impercettibile sibilo di una leggera folata di vento stava accarezzando la meritata pausa ristoratrice dopo il lungo cammino. I crackers, masticati con fervore, emettevano un rumore assordante nel silenzio del luogo. Anche l’acqua sorseggiata dalla borraccia in metallo, tinta di giallo girasole, donava vibrazioni armoniose. Una lancia in disuso, ferma da chissà quanto tempo in un’ansa vicina, aveva imbarcato acqua. Giaceva semiaffondata senza più vita, legata a un paletto improvvisato. Inerme.
Quel giorno, Giancornelio non ebbe la fortuna di vedere Volpe Azzurra e Cane Giallo. Probabilmente erano in viaggio sul fiume e avevano fatto perdere le loro tracce. Oppure erano stati fatti prigionieri dai bracconieri del distretto nemico, ma nessuno poteva saperlo. Giancornelio s’incupì all’improvviso. Il suo sguardo vagò nel nulla fino a trovare un frammento di luce radente in cammino. Lo seguì per interminabili istanti. Un bagliore indefinito nel verde dell’erba. L’ennesimo raggio di luce alla ricerca di quel fiore rosso da dove era partita la favola, nella fantasia del bambino. Giancornelio e suo padre ritornarono ancora in quella selva, per molte volte. Ma non incontrarono mai Volpe Azzurra e Cane Giallo. Neppure i Dayak e i Puka Puka ebbero la fortuna di vedere.
Sono passati molti anni da quei giorni, Giancornelio è diventato un uomo. «Bugiugiua» – Volpe Azzurra – non se n’è mai andata, è tuttora un quesito riservato e irrisolto nel cuore di quel bambino diventato grande. Capita ancora, nelle serate dove padre e figlio si ritrovano a rispolverare i ricordi, che ne parlino. Capita ancora, di vederli prendersi per mano e perdersi nel bosco.
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