Duello nell’Artico
L’Artico è l’ultimo Eldorado del nostro pianeta. Ma in barba ai cambiamenti climatici che sono la causa del rapido scioglimento dei suoi ghiacci, e nell’indifferenza per il prevedibile misero destino che toccherà alle inermi popolazioni autoctone, è iniziata la corsa per accaparrarsi le colossali risorse che custodisce. Secondo l’Istituto geologico degli Stati Uniti, nell’Artico ci sono più di 400 miliardi di barili di petrolio e gas per un valore di 30 mila miliardi di dollari, oltre a uranio, terre rare, oro, diamanti e minerali preziosi. Solo i politici miopi non hanno ancora capito che il conflitto in Ucraina è soltanto la prova generale di un imminente scontro titanico per la ridefinizione del nuovo ordine mondiale in cui chi controllerà le risorse governerà il mondo in questo secolo. I due schieramenti si sono già formati: da una parte le democrazie, e dall’altra le autocrazie. L’invasione russa dell’Ucraina ha fatto saltare le collaborazioni internazionali sullo studio dei cambiamenti climatici nell’Artico. A marzo del 2022, Danimarca, Svezia, Finlandia, Canada, Islanda, Norvegia e Stati Uniti, cioè 7 membri su 8 del Consiglio artico – il forum inter-governativo istituito dalla Dichiarazione di Ottawa del 1996 per discutere sulle problematiche relative ai territori di quella regione – si sono autosospesi. L’unico membro «attivo» è rimasto la Russia. E con l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato che vede allungarsi di 1.300 chilometri il confine dell’Alleanza Atlantica, il confronto con la Russia è inevitabilmente destinato a inasprirsi.
«Dopo la fine della Guerra fredda, il Grande Nord passava dall’essere uno dei luoghi della contesa tra blocco occidentale e blocco sovietico a uno spazio in cui sperimentare nuove forme di collaborazione, specialmente di natura scientifica. Dopo l’aggressione russa in Ucraina, il Grande Nord sta rivivendo una rapida militarizzazione» avverte il generale Claudio Graziano, già capo di Stato maggiore della Difesa, presidente del Comitato militare dell’Unione europea, e con un lungo curriculum in missioni di pace all’estero sotto l’egida dell’Onu. Oggi è presidente di Fincantieri. «La Russia – prosegue Graziano – è sempre più isolata dai suoi vicini settentrionali. E questo alimenta la sua percezione di essere “avvolta” dalle potenze atlantiche, soprattutto marittime, lungo gli oceani ormai navigabili che costeggiano il Mare del Nord. D’altro canto, per la Nato, la sua percezione è sempre quella di una possibile penetrazione russa. Nel nuovo “Concetto strategico” della Nato del 2022, si prende esplicitamente coscienza della sfida rappresentata, nel Grande Nord, dalla Russia, potenzialmente capace di interrompere i rinforzi alleati e la libertà di navigazione attraverso l’Atlantico settentrionale». Per fare fronte a questo, la Nato sta aumentando la sua presenza nell’Artico, e gli alleati stanno investendo in nuove capacità aeree e marittime in grado di operare in condizioni estreme. «A tutto ciò, si aggiunga la vicinanza tra Mosca e Pechino. Il rappresentante speciale della Cina per l’Artico, Gao Feng, ha categoricamente escluso qualsiasi appoggio di Pechino alla proposta di creare una nuova organizzazione composta da tutti gli Stati artici, e con l’esclusione della Russia».
Il vaso di Pandora
Sul tema dell’Artico si intrecciano questioni diverse e difficilmente districabili: geopolitiche, militari, energetiche e ambientali. In preda a una sorta di febbre dell’oro, Occidente e Oriente sembrano unicamente concentrati sulle strategie per sfruttare la regione polare invece di preoccuparsi delle conseguenze che gli effetti del riscaldamento globale avranno sull’Artico e sul destino stesso dell’umanità. Vito Vitale, dirigente di Ricerca dell’Isp del Cnr (Istituto di scienze polari del Consiglio nazionale delle ricerche) osserva che «i cambiamenti climatici hanno sull’Artico un maggiore impatto per motivi diversi, in particolare la presenza permanente di ghiaccio e neve, e l’estremizzazione del ciclo giorno e notte nella regione, con mesi di sole sempre presente e mesi di buio totale. Tali condizioni ambientali sono alla base della cosiddetta polar amplification: l’aumento della temperatura nell’Artico sta avvenendo al triplo della velocità rispetto al resto del pianeta. Questa situazione ha riflessi diretti sul comportamento di base del sistema climatico. Da un punto di vista termodinamico, il sistema climatico deve il suo funzionamento alla presenza di un pozzo freddo, i poli, e di un pozzo caldo, la zona equatoriale. Il corretto funzionamento della macchina climatica dipende dalla differenza di temperatura tra le aree calde e le aree fredde. L’aria e l’acqua si mettono in moto per riequilibrare tale differenza, rispondendo a quella che è una legge di natura. In questo senso, la circolazione atmosferica e quella marina sono interconnesse. Quando noi andiamo a incidere su questo meccanismo, il sistema diventa instabile e gli eventi meteorologici estremi tendono a essere più frequenti e più intensi come abbiamo iniziato a constatare. I cambiamenti climatici nell’Artico hanno un impatto alle medie latitudini con inverni estremamente freddi in qualche area, e magari inverni miti altrove. Negli ultimi anni abbiamo spesso intrusioni fredde a latitudini molto basse negli Stati Uniti. Mentre in Europa ci sono inverni miti».
Se il clima sta correndo fuori controllo, il diritto internazionale è invece in forte ritardo. In particolare «nella messa a punto di un sistema di governance che tuteli sia i diritti dei Paesi che si affacciano sull’Artico sia la comunità internazionale: non dimentichiamo che questa è un’area di tutti, non di qualcuno» evidenzia Michele Nones, vicepresidente dello Iai (Istituto affari internazionali). «Ma il fatto che sia di tutti non significa che non ci debba essere nessun tipo di regolamentazione dell’uso di quell’area. È evidente che le grandi potenze che hanno mezzi e risorse, e che sono prossime a quella regione in termini territoriali, sono favorite, almeno, per esempio, rispetto all’Europa che non ha ancora una strategia comune per l’Artico».Le attuali norme non sono sufficienti a gestire quell'area del pianeta.
«Le pretese della Russia sono pari a una superficie equivalente alla Francia e alla Spagna messe insieme. Anche la Danimarca ha presentato un proprio dossier all’Onu, naturalmente la Groenlandia e anche il Canada», ricorda Marzio Mian, giornalista, scrittore e fondatore di «The Arctic Times Project» (www.arctictimes.org) e autore del saggio Guerra Bianca. Il Fronte Artico (Neri Pozza). «Difficilmente l’Onu stabilirà a breve di chi è il Polo Nord», prosegue Mian. «Tuttavia molti osservatori non escludono la possibilità che la Russia possa occuparlo anche alla luce di quello che è accaduto in Ucraina. L’ultima dottrina navale con le dichiarazioni di Putin a San Pietroburgo, del luglio del 2022, indica l’Artico come una priorità nelle ambizioni marittime di Mosca, e si accenna perfino a una possibile nazionalizzazione della “Northern sea route” (“Rotta marittima artica”, ndr). La Russia è storicamente una nazione artica. È lì fin dal Settecento. E oggi quella regione rappresenta tutto dal punto di vista economico, militare e strategico per la sicurezza. Dall’Artico si possono raggiungere gli altri oceani in modo veloce». Fino al punto di potersi posizionare con dei missili, senza più ostacoli naturali, proprio davanti alla porta di casa degli Stati Uniti. «La Russia è pronta a tutto se qualcuno le dovesse toccare l’Artico dove essa vede radicato il suo futuro, soprattutto in questo momento in cui gli studi indicano come Russia, Canada e Scandinavia saranno le regioni del pianeta a beneficiare di più degli effetti dei cambiamenti climatici. La Russia con la Siberia saranno il nuovo granaio del mondo, con o senza Putin».
Del resto, Mosca non è stata a guardare. Nell’ultimo decennio, ha portato avanti ingenti investimenti militari. Tra questi «il dispiegamento di nuovi sistemi missilistici di difesa costiera e aerea, e sottomarini; l’apertura di numerosi siti militari sia nuovi che dell’era sovietica, l’uso della regione come banco di prova per nuovi sistemi d’arma – aggiunge Graziano –. Ricordo che nel maggio del 2022, la Russia ha testato, nelle acque del Mar Glaciale Artico, il micidiale missile ipersonico Zircon progettato per distruggere le grandi unità navali (portaerei, incrociatori e cacciatorpedinieri) e terrestri. I due obiettivi principali di Mosca sono il pieno controllo della rotta marittima settentrionale e la difesa della linea di costa settentrionale, in particolare, della penisola di Kola». Le reazioni di Stati Uniti e Nato non si sono fatte attendere. Innanzitutto da Washington. «Al centro della nuova “Strategia nazionale per la regione artica” elaborata dall’amministrazione Biden, c’è l’obiettivo di scoraggiare l’aumento delle attività russe e cinesi nel Grande Nord – prosegue Graziano –. La nuova strategia individua quattro pilastri, tra cui, in primis, quello della sicurezza, promettendo un perfezionamento della presenza militare nell’Artico in nome della difesa della patria, della proiezione di potenza e degli obiettivi di deterrenza. Tutto ciò passa attraverso l’aumento delle esercitazioni con i Paesi partner per migliorare la capacità di operare in ambienti degradati, estremi e non permissivi, come quello artico. Richiede inoltre una maggiore collaborazione con il Canada per la modernizzazione della difesa aerea del Norad (North american aerospace defense command) e, infine, la costruzione di nuove navi rompighiaccio. Basti pensare che due delle più grandi esercitazioni della Nato degli ultimi anni, ossia “Trident Juncture” e “Cold Response”, si sono svolte nel Grande Nord e vi hanno partecipato anche la Marina e l’Esercito italiani».
La Via della Seta polare
In questo contesto, già di per sé pericolosamente conflittuale, c’è un convitato di pietra: la Cina. Tra il 2005 e il 2017, Pechino ha speso più di 1.400 milioni di dollari nell’area dell’Artico, investiti nei settori dell’estrazione mineraria, delle risorse energetiche, e nello sviluppo di infrastrutture locali. «Penso che la Cina stia “giocando” da sola – osserva Nones –, e si trovi nella felice condizione, per lei, di avere invertito i rapporti di forza che in passato la legavano alla Russia. Oggi è la Russia che dipende dalla Cina e non il contrario». Ma sull’Artico la Cina è già alleata militarmente con la Russia. «Secondo fonti del Dipartimento di Stato americano – ci informa Mian –, cinesi e russi stanno condividendo i sistemi di telecomunicazioni per soppiantare il Gps occidentale (sistema satellitare di posizionamento e navigazione, ndr), utilizzato anche dalla Nato. Già dal 2014, con le prime sanzioni subite per l’occupazione della Crimea, la Russia ha iniziato a guardare a Pechino. E questo le è servito per costruirsi una tecnologia autonoma. E ha fatto grandi passi».
Secondo Graziano, sulle ambizioni di Pechino sono quasi tutti concordi: «La Cina, auto-proclamatasi nel 2018 “Stato vicino all’Artico”, ambisce a costruire nella regione il ramo settentrionale del grande progetto infrastrutturale della “Nuova Via della Seta”, la cosiddetta “Via della Seta polare”, per collegare Asia ed Europa, ma anche per aggirare eventuali blocchi dello Stretto di Malacca, principale via di comunicazione tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico. Pechino guarda all’Artico allo stesso modo in cui guarda all’Antartide e allo spazio: cioè come aree che, non essendo totalmente regolate, le permetterebbero, potenzialmente, di esercitare una qualche forma di influenza. Nell’ultimo decennio, la Cina è riuscita a raddoppiare i suoi investimenti nel Grande Nord, ottenendo dal governo della Groenlandia ben cinque concessioni minerarie». Pechino è interessata soprattutto alle terre rare. «Gli Stati Uniti dipendono dalla Cina per la loro lavorazione e quindi per i prodotti derivati, come i chip nell’elettronica», sostiene Mian. «Sembrerebbe che il sottosuolo della Groenlandia disponesse del 25 per cento delle riserve mondiali di terre rare. E quindi gli Stati Uniti stanno scalzando la Cina dalla Groenlandia attraverso la Danimarca, ma anche direttamente con il governo inuit groenlandese».
Ad avere ancora una posizione tiepida è il Canada, un altro naturale pretendente dell’Artico. «Il Paese degli aceri ha sempre avuto un approccio di soft power», nota Mian. «Il premier Trudeau si è posto come un leader di riferimento per la difesa del clima, salvo poi dare impulso allo sfruttamento delle sabbie bituminose che hanno un impatto pesantissimo sull’ecosistema canadese. Pensiamo solo a quello che è avvenuto nella provincia dell’Alberta. Sull’Artico, il Canada ha sempre vissuto con fastidio il ruolo della Nato. Però nella cultura canadese il Grande Nord è molto presente, e anche sul piano militare Ottawa ha sempre presidiato la regione. Adesso sta collaborando con gli Stati Uniti nel progetto militare del Norad. Negli ultimi mesi, sia la Nato che gli Stati Uniti hanno avuto la netta percezione di un cambio di rotta sul ruolo della Cina nell’Artico. E si parla in modo chiaro del fatto che i progetti scientifici cinesi siano, in realtà, delle coperture per operazioni militari e di intelligence». Nones auspica «che il Canada rafforzi la sua posizione e strategia nazionale nei confronti dell’Artico, e faccia sentire la sua voce non ancora sufficientemente forte. Ma questo dipende più dai canadesi che non da noi. Una maggiore presenza sia europea che canadese sulle tematiche che riguardano l’Artico potrebbe sicuramente fare da catalizzatore, e contribuire a mantenere il più possibile la presenza di tutti i Paesi nell’ambito di un confronto e di una collaborazione. Se lo lasciamo alla sola disputa tra Stati Uniti e Russia, è pressoché inevitabile che il confronto finisca per essere solo militare così come è avvenuto durante la Guerra fredda».
Di fronte a questo scenario, quale ruolo intende ritagliarsi l’Europa? Almeno un terzo dei suoi territori si affacciano sull’Artico. Il vecchio continente rimarrà alla finestra? «C’è un ritardo nel processo d’integrazione europea, più marcato nella proiezione internazionale che non nella dinamica interna della Ue», rileva Nones. «È complesso definire una posizione europea, data la frammentazione politica al suo interno». Graziano sottolinea che «la sicurezza marittima del Mar Glaciale Artico è cruciale per la protezione ambientale, lo sviluppo economico, il commercio, i trasporti e le forniture energetiche dell’Unione europea. E, di conseguenza, richiede una tutela adeguata delle vie di approvvigionamento e distribuzione delle risorse. L’Europa è circondata dalle reti sottomarine e, a Nord, le criticità maggiori sono da individuare proprio nello scioglimento dei ghiacci artici, nell’aumento dei traffici e nella rilevante presenza delle forze navali russe». L’Italia può avere voce in capitolo? «Il nostro Paese deve condividere da protagonista le iniziative volte a rafforzare la sicurezza, anche militare, dell’area e delle vie di comunicazione. Questo si traduce sia nel dispiegamento di un dispositivo aereo, navale e terrestre, in occasione delle esercitazioni, sia nello sviluppo tecnologico di sistemi idonei a operare nelle condizioni estreme dell’Artico. Dobbiamo avere un ruolo decisivo che non si risolva solamente nella, seppur forte, presenza scientifica».
È anche per questo che Fincantieri ha deciso di investire energie e competenze, in particolare a partire dalla Norvegia. «Qui siamo presenti dal 2013, quando è stata acquisita la società del gruppo norvegese Vard, tra i leader mondiali nella costruzione di navi specializzate per il mercato offshore – conferma Graziano –. Con oltre 8 mila dipendenti, il core business è la progettazione e produzione di complesse unità Osv (Offshore support vessels). Inoltre, Vard realizza navi come traghetti alimentati a lng (gas naturale liquefatto), navi militari e pattugliatori costieri, navi da pesca e rompighiaccio. Solo per fare un esempio, nel 2021 Vard ha consegnato alla società armatrice francese Ponant la nave da crociera Le Commandant Charcot destinata ai viaggi polari».
Italiani nell’Artico
Il mondo della ricerca scientifica rivendica un ruolo di primo piano. «Nell’Artico – conferma Vitale – l’Italia vanta la base “Dirigibile Italia” a Ny-Ålesund, in un vecchio villaggio minerario che il governo norvegese ha riaperto alla ricerca, e dove le istituzioni di 11 nazioni collaborano. Dal 1997 abbiamo la nostra stazione di ricerca del Cnr che viene messa a disposizione della comunità scientifica italiana. Un’altra attività di lungo corso è, dagli anni Duemila, un osservatorio climatico presso la base militare americana di Thule, in Groenlandia, che vede impegnate Università di Roma La Sapienza, Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) e Ingv (Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia) in collaborazione con Danimarca e Stati Uniti. L’Italia dispone anche di una nave high capacity per l’Artide e l’Antartide, la Laura Bassi, in capo all’Ogs (Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale di Trieste), ma gestita congiuntamente da Ogs, Cnr ed Enea».
Mentre le superpotenze si accingono a prepararsi a uno scontro epocale per la conquista dell’Artico e delle sue risorse, le questioni ecologico-ambientali sembrano passate in secondo piano. E con esse i diritti dei popoli autoctoni che abitano nella regione. «La prima vittima della paralisi delle attività del Consiglio artico è l’Artico stesso», ammette Mian. «All’interno di questo organismo si parlava anche della questione della pesca. È proprio da questo settore che potrebbero scaturire eventuali incidenti o casus belli, soprattutto alle isole Svalbard. Per le popolazioni autoctone non c’era un futuro prima, e tanto meno ce ne sarà uno adesso. Ai tempi del colonialismo 2.0 si usano parole diverse, ma la logica è la stessa: quella di occupare, di sfruttare. La Groenlandia è l’esempio più lampante. Ha un governo, quello degli inuit. Ma possiamo immaginare la disparità di forze e conoscenze, e anche di malizia negli affari, tra autoctoni da una parte e grandi compagnie internazionali, con i loro studi legali, dall’altra».
È un gioco delle parti in cui le popolazioni indigene sono destinate a soccombere. «Oggi la consapevolezza ecologica è probabilmente molto più forte nei cittadini che non nel mondo politico o in quello dell’impresa», chiosa Vitale. «La politica ha una grande responsabilità perché dovrebbe riuscire a mantenere gli impegni presi a livello internazionale. I cambiamenti climatici, anche nell’Artico, ci pongono una serie di questioni a lungo termine. Se non dovessimo riuscire a raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati, ci troveremmo davanti a un mondo completamente diverso da quello che conosciamo. È pur vero che, di fronte a questo lungo orizzonte temporale, le priorità per la politica e i cittadini diventano la quotidianità: il lavoro, il cibo, le questioni geo-politiche. Ma bisogna trovare la giusta compensazione tra priorità a breve e lungo termine. Abbiamo gestito il pianeta senza tenere minimamente conto delle esigenze della natura di cui c’era certamente più considerazione in passato. L’uomo pensa di poter controllare il mondo e la natura, e di poterli governare. Ma non saremo mai in grado di farlo. Tanto ci penserà la natura a prendere le decisioni di cui noi non ci assumiamo la responsabilità. In definitiva, dobbiamo decidere se vogliamo governare questi fenomeni oppure subirli».
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