Ritrovarsi in Sri Lanka
La storia che questa foto (le altre immagini nel numero di luglio-agosto del «Messaggero di sant'Antonio») racconta nasce da un viaggio e ha inizio a Roma, dall’intraprendenza di una giovanissima ragazza di origini singalesi di nome Erangeni. L’ho conosciuta all’Armadillo, un centro interculturale della periferia nord di Roma, uno spazio pomeridiano aperto a ragazzi e ragazze di diverse età e provenienze che con noi studiavano e crescevano. Era anche un luogo dove si consolidavano caratteri diversi attraverso la relazione tra pari, si cresceva nel rapporto con gli insegnanti e con i genitori. Un esempio, seppur in piccolo, di convivenza costruttiva tra persone di origini ed età diverse. Oggi, purtroppo, questo bellissimo progetto, che ha accompagnato in vent’anni di servizio quotidiano oltre mille ragazzi, non c’è più: ha dovuto chiudere nel 2018 per mancanza di fondi, nell’indifferenza dell’amministrazione comunale.
Chi scrive, all’epoca, oltre a essere operatrice sociale, amava (come oggi del resto) raccontare storie attraverso la fotografia e, quando Erangeni mi invitò a seguirla nel suo viaggio di ritorno a casa per le vacanze estive con l’intera famiglia, ne fui ben contenta. Era per me un modo per raccontare una storia osservandola e vivendola dal di dentro. Sempre, quando viaggio, preferisco di gran lunga immergermi nella vita di tutti i giorni, muovermi nei quartieri popolari, reiterare piccoli gesti che mi facciano sentire, seppur per breve tempo, come parte del luogo. Partimmo alla fine di luglio. Arrivammo, dopo molte ore di volo e uno scalo a Doha (Qatar), all’aeroporto di Colombo, dove lo zio più giovane di Erangeni ci aspettava con il suo furgoncino aziendale per caricare persone e bagagli. Assistevo alla felicità e all’emozione del ricongiungimento di una famiglia dopo un anno di separazione.
La casa, bellissima, era già aperta e pronta per ospitarci. La zia maggiore l’aveva pulita e fatta arieggiare e da lì in poi avremmo vissuto tutti insieme per un intero mese. La foto in alto, assieme a molte altre, è stata scattata durante quel mese di vacanza in cui ho assistito, tra le altre cose, al cambiamento di Erangeni e all’effetto che fa il sentirsi a proprio agio in un luogo. Ma ho anche visto gli effetti dell’emigrazione, che in Sri Lanka fa percepire l’assenza come qualcosa di fisiologico: in tutte le case che ho visitato mancava qualcuno e a ricordarlo c’era una foto, un nome sussurrato, un posto vuoto a tavola. Una volta, a casa di amici di famiglia, mi fu data una stanza tutta per me e mi sentii fortunata. Trovai sulla federa del cuscino la scritta «good luck» («buona fortuna», ndr). Era un ricamo fatto a mano con filo rosa, una mano inesperta, pensai, forse di bambina.
Dopo una bella e buona cena a base di pesce, riso, manioca, curd (yogurt di latte di bufala) e altre verdure cotte nel latte di cocco, mi ritrovai ad ascoltare la storia di Asanka. Aveva vissuto per venticinque anni in Italia a servizio di una importante famiglia romana (a cui si diceva affezionato e riconoscente). A casa aveva lasciato moglie e figli, tornando solo poche volte a trovarli. In compenso, aveva mantenuto e fatto studiare la figlia che, come lui, ora mi stava di fronte e mi parlava. Infermiera, da poco madre di un bambino, l’unica a non essere mai andata via dal Paese. Lei, grazie ai soldi che il padre aveva mandato, aveva studiato e costruito una casa con grandi stanze ariose. E mentre ascoltavo la sua storia e guardavo il viso stanco e vecchio del padre, ho pensato a lei bambina, che ricamava la federa, un piccolo dono di figlia per il padre che partiva per raggiungere l’altra parte del mondo, dove forse l’inglese era una lingua conosciuta, sicuramente più del sinhala (la lingua dello Sri Lanka). E allora, quel «good luck» è un messaggio universale, diretto a tutti coloro che partono e che sperano, un giorno, di poter rivivere la felicità e l’emozione del ricongiungimento.
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