Strada facendo
Un padre e il suo bambino camminano su strade sconnesse, piovose e deserte, morsi dal freddo, dalla fame e dalla paura. Spingono un carrello del supermercato con viveri e indumenti essenziali, verso un’introvabile costa del Sud, dove sperano di sopravvivere ai prossimi gelidi inverni. La notte è «più buia del buio e un giorno più grigio di quello passato». Gli alberi cadono, gli uccelli hanno disimparato a volare. La mamma non c’è. Lei, bellissima, sensuale, affettuosa, talentuosa anche nella musica, era troppo sensibile al dolore e non riuscì a reggere quello spettacolo di rovine. Tutto è ormai cenere e carcasse e sporcizia. I sopravvissuti, stremati come zombi o aggressivi come dèmoni, si scrutano, spiano e depredano come lupi. La moralità è regredita a una crudele lotta di branco. Mors tua, vita mea. Le condizioni di vita sono così precarie e selvagge che chi può conserva una pistola per difendersi o almeno uccidersi, prima che il nemico lo ferisca, lo squarti e ne faccia cannibalismo.
Che razza di esistenza è questa? Ha senso continuare a vivere? Il bambino risponde di sì. Questa è la prima cifra di lettura critica del film The Road - La strada (USA 2009): quella etica. Il bambino custodisce le memorie: «Ti parlerò tutti i giorni (mamma) e non mi dimenticherò di te per niente al mondo». Il bambino crede ancora che si possano distinguere i buoni dai cattivi, coloro che hanno il fuoco nel cuore dai criminali predatori, dai falsi profeti, dagli adulti inaffidabili. Il bambino vuole imparare la saggezza del vivere, quella dignità che nessuna malattia o epidemia può strapparci via. A ogni passo il figlio apprende la lealtà, inorridisce per il cinismo ipocrita, respinge la vendetta del taglione, assapora doni e relazioni imprevisti («c’è un altro bambino come me; lo devo vedere; ne ho bisogno!»), dà credito alle promesse di una nuova famiglia, che decide di adottarlo proprio lì, ai confini della terra, dove cielo e mare si toccano.
Un Dio lassù
Ma la seconda ottica di lettura, quella teologica, è ancora più intrigante. «Se c’è un Dio lassù a quest’ora ci ha già voltato le spalle e qui comunque non vedrebbe alcuna umanità». Il Dio dal volto paterno è latitante o è troppo debole (e non può aiutare) oppure troppo distratto (e ha altre cose cui deve e vuole pensare). Il padre vedovo è ferito, stanco, solo, incredulo, spaventato. Gli rimane il ferreo proposito di preparare il figlio al giorno della separazione. Il padre resiste perché ha fede nel figlio: «Il bambino è la mia garanzia – dice con voce narrante – e se lui non è il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato». Il Dio del film ha appunto il volto di un bambino, delicato, bello e affettuoso come quello della mamma. Il figlio ricorda e incarna la premura, che i suoi genitori hanno nutrito nei suoi confronti; il figlio alimenta e sostiene la forza del padre, ne lenisce gli incubi, gli insegna a sperare: «Io padre ti difenderò, è questo il mio compito… Tu devi guarire papà, è tutto ok».
Sebbene gli strumenti registici non siano all’altezza della scrittura di Cormac McCarthy, l’autore del romanzo omonimo (cui è ispirato il film), plurimi riconoscimenti cinematografici hanno premiato la regia di Hillcoat per avere tessuto un prezioso ordito di amore familiare in un luogo spiritualmente impervio, furioso e tragico. Il quotidiano può essere implacabile, sia nella pietà che nella ferocia. Una strada forse c’è, ma va cercata, credendo alla vita anche sotto lo scacco del male.
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