È finito il Ramadan
In quella grigia mattina di novembre erano molti i fratelli musulmani assiepati nel piazzale del Palasharp di Milano. Si festeggiava l’Eid al Fitr, la celebrazione religiosa solenne nel segno della gioia per la fine di un lungo periodo di digiuno: il Ramadan era finito. Da anni stavo lavorando a un progetto sull’islam a Milano, ma non ero mai riuscito a ottenere un accredito che mi permettesse di documentare questo importante evento. Sapevo benissimo che i fedeli musulmani non amavano farsi fotografare durante le funzioni religiose, ma nulla poteva essere perduto. Voci ufficiali della manifestazione mi avevano riferito che Ali Abu Shwaima – il religioso giordano considerato uno dei maggiori esponenti e rappresentanti dell’Islam in Italia, nonché imam della moschea di Segrate – avrebbe celebrato la Jumu’a, la preghiera del venerdì in occasione della fine del digiuno. Sarebbe arrivato da lì a poco, bisognava solo avere pazienza e aspettare.
Conobbi Abu Shwaima in occasione di un servizio alla moschea di Segrate, qualche anno prima. Avevo mantenuto buoni rapporti nel tempo, ma non ero certo che si sarebbe ricordato dei nostri trascorsi e che mi avrebbe riconosciuto. Lo vidi arrivare accompagnato da due persone. Stavano parlottando animatamente. Lo avvicinai nell’immediato, non fu necessario presentarmi. Mi riconobbe sul momento: ricevetti il benvenuto con una calorosa stretta di mano e il mio nome pronunciato senza esitazione. Dopo quell’amichevole saluto, mi convinsi che avrei potuto svolgere il mio lavoro stando di fronte ai fedeli rivolti verso la Mecca.
C’era grande trambusto tra la gente presente a questa festa di fine Ramadan. Nel fervore degli ultimi minuti prima della preghiera, gli organizzatori e i volontari allineavano i tappeti sul fondo dello spiazzo. La cerimonia sarebbe iniziata a breve. Gli altoparlanti emettevano suoni stonati che avrebbero preso forma nella solenne acustica scandita dal richiamo dell’Imam. «Allah Akbar» (Dio è grande). A seguire altri messaggi religiosi in lingua araba. Con rigorosa compostezza i fedeli si avvicinarono al mare di tappeti stesi sull’asfalto. Si tolsero le scarpe ammucchiandole alla rinfusa, per poi raggrupparsi e prendere posto sulle stuoie.
L’immensa folla di devoti si rivolse verso la Qibla (la direzione della città di La Mecca), lasciando la vistosa insegna del Palasharp alle loro spalle. Attimi di silenzio mescolati a un bisbiglio precedettero l’inizio del sermone, poi, come previsto dal protocollo religioso, l’Imam prese la parola intonando la salah (l’invocazione dell’uomo verso il creatore). I fedeli, in una sorta di controllata catalessi, iniziarono a interagire e interrogare il loro cuore con un’orazione musulmana personale e silenziosa: l’implorazione al soccorso e alla salvezza nei confronti di Allah. «Allah Akbar», Dio è grande. Lo pronunciarono più volte i praticanti alla preghiera, fino a sollevare le mani ai lati delle orecchie, col palmo rivolto verso il cielo. Il tono era trattenuto e moderato. Lo sguardo dei pellegrini era sempre fisso in un punto, in un vuoto apparente, creato nella sola mente. Tutt’intorno la città sembrava evaporata, Milano era diventata il deserto.
Dopo la prima parte della recitazione coranica, i fedeli s’inchinarono in avanti. Anche lo sguardo aveva cambiato direzione ed espressione, tuttavia mantenendo l’assenza di un riferimento preciso. La preghiera, nel vivo della sua espressione di credo, aveva assunto i toni di una litania liturgica. Immerse in uno stadio di profonda spiritualità, le migliaia di devoti ritornarono in posizione eretta riportando le mani all’altezza delle orecchie. Ma solo per qualche istante, poi di nuovo giù, chinati a terra: questa volta appoggiando le ginocchia, le mani e la testa al suolo. La recita del Corano continuò nel silenzio fino al momento di rialzarsi e rivolgere nuovamente lo sguardo al cielo. I movimenti si ripetevano creando un tappeto umano variopinto fatto di schiene statiche, pronte a scomporsi qualche istante dopo.
L’intera cerimonia si era svolta concentrandosi nel breve spazio di pochi minuti. Attimi infiniti dove il mondo circostante sembrava non esistere. Non esisteva nemmeno il bimbo immerso nella folla pregante che, eretto sulle sue gambette, osservava con curiosità i grandi assorti in preghiera e i palazzi della città che svettavano fino alle nuvole. Aveva freddo quel piccolo fedele, tremava. Un anziano se ne accorse e gli sollevò il cappuccio della sua giacchina trapuntata sopra la testa. Ora stava un po’ più al calduccio, poteva continuare a contemplare la sua gente. Svettava quel bambino ritto in piedi nel mezzo della marea umana prostrata davanti a Dio. Era in evidente contrasto col resto dello scenario che si presentava davanti ai miei occhi. Fu una visione inaspettata, un punto di riferimento per capire meglio gli uomini. Un giorno, quando quel bimbo sarà cresciuto e potrà unirsi ai «grandi», si rivolgerà anche lui alla Mecca pregando Allah. Invocherà un mondo migliore, senza guerre. Quel tempo arriverà, inshallah, se Dio vorrà.
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