«Stare» nel dolore

È nello «stare» che si esprime la vicinanza a chi soffre. Lo faceva anche Antonio che, prima di essere il Santo che tutti conosciamo, era stato un uomo capace di condividere il dolore, indicando a tutti l’amore di Dio.
07 Dicembre 2022 | di

La morte. Da alcuni anni ormai insegnavo religione e più ascoltavo i ragazzi più mi rendevo conto che, nei loro discorsi, questo argomento veniva fuori poco e solo come luogo comune, trattato quasi come discorso da bar, ragionato a freddo senza che apparisse alcuna sensazione o emozione vicina che li toccasse. Di quella morte vicina, invece, che fa soffrire perché ti toglie un affetto caro o ti fa paura come fine di tutto, di quella grande angoscia non si poteva parlare… era come un pesante tabù. Per questo il fatto successo in una classe quarta qualche mese prima mi era rimasto impresso quasi come una pietra miliare che diceva molto di quello che i ragazzi avevano dentro e di cui, forse, nemmeno erano consapevoli.

Un sabato mattina, durante la terza ora, era arrivata a scuola la madre di una degli studenti di quarta. Piangeva: doveva avvisare la figlia che il padre era morto poco prima di un infarto fulminante e doveva portarla a casa. La ragazza era stata chiamata ed era uscita subito da scuola. L’insegnante della quarta ora aveva dovuto avvisare dell’accaduto l’intera classe che, alla quinta ora, quando ero arrivato io, ancora era in preda allo scompiglio generale. Così, al mio ingresso, la collega mi aveva dato il cambio scuotendo la testa, come a dirmi: «Provaci tu, io non ci sono riuscita!».

Ero entrato quasi in punta di piedi, dando comunque il buongiorno, a cui ben pochi avevano risposto stando in piedi in vari capannelli in giro per la classe. Alcuni parlottavano e piangevano piano, alcune ragazze stavano abbracciate e sembravano appese le une alle altre tanto che a fatica si poteva distinguere dove finissero le braccia dell’una e cominciassero quelle dell’altra, altri sedevano nel loro banco e fingevano di tener aperto un quaderno per darsi un tono, altri ancora guardavano fuori dalla finestra come per cercare un’evasione da quel clima insostenibile. Dopo alcuni momenti in cui io stesso avvertii un disagio molto forte, mi schiarii sonoramente la voce e questo suono gutturale forte e inaspettato sembrò distogliere per un attimo i ragazzi dalla loro nuvola di confusione. Mi guardarono e mi obbedirono quasi subito quando chiesi loro di sistemare tutte le sedie in cerchio, spostando anche i banchi.

Quando fummo tutti seduti e posizionati, operazione che durò almeno cinque minuti di un utile impegno pratico che allentò un po’ di tensione, provai a chiedere che qualcuno con calma mi raccontasse che cosa era successo: già lo sapevo bene, ma era importante per loro riuscire a narrarlo lì, in un ambiente protetto di cui si fidavano. Me lo raccontò Giulia, una delle migliori amiche della ragazza che aveva perso il padre. Dopo tutto il racconto dettagliato, aggiunse stupendomi: «Io non lo so, prof, io alla morte non ci avevo mai pensato, ma oggi ci è arrivata proprio vicina. Non so come potrà stare Sara che non rivedrà più suo padre, io impazzirei… Il mio mi manca già quando sta fuori per lavoro più di tre giorni… Io vorrei chiamarla Sara, ma non so bene cosa dirle, perché io una cosa così mica l’ho mai provata e mi sento un po’ in colpa. Forse sono insensibile io!».

Anna, un’altra amica del loro gruppetto, replicò: «Io non penso che tu sia insensibile, solo non ci sei passata ancora. L’hanno scorso è morta mia zia, la sorella di mia madre, e io le volevo molto bene perché era più giovane di lei e insieme facevamo molte cose, era molto carina e simpatica. Sono stata molto male e ancora mi manca tanto!». Intervenne anche Diego, che di solito parlava pochissimo: «Per me la morte è una gran fregatura, io non ci sto che uno sta bene, lavora come un matto tutta la sua vita e poi sul più bello… zac! Se ne deve andare ed è tutto finito, a me questa cosa fa una rabbia che spaccherei tutto! Ma è che poi non cambia niente…».

A ogni frase dei compagni gli altri annuivano, oppure facevano segno che non erano d’accordo, però notai che avevano smesso di piangere e che non stavano più rannicchiati in se stessi come prima. Soprattutto le ragazze, pur con gli occhi rossi, sedevano ormai ognuna sulla propria sedia e tenevano la testa alta, a tratti aggiungendo piccoli flash su come poteva stare Giulia, o condividendo i loro pensieri su che cosa si poteva fare per aiutarla in quel momento. Presi piano piano la parola, come scivolando lentamente tra i loro discorsi, senza dare l’impressione che avessi qualcosa da dire più di loro sull’argomento. La cosa che mi parve più saggia fu spostare l’attenzione sulle modalità con cui insieme potevamo stare vicini a Giulia, per far sentire a lei il nostro affetto e il nostro calore.

L’ora finì e sembrò velocissima, nonostante fosse partita con la pesantezza di un macigno, e per l’ennesima volta avevo fatto l’esperienza di come il mettermi a servizio dei ragazzi, facilitando il dialogo tra loro e aiutandoli a narrare i loro vissuti e i loro pensieri con libertà, fosse la carta vincente per farli sentire accolti e incoraggiati a non sprofondare nei loro problemi. I ragazzi finalmente potevano rientrare a casa, ma iniziava per loro un weekend difficile, nel quale avrebbero voluto contattare la compagna Giulia, per la quale la vita aveva cambiato rotta così velocemente. Sulla porta, però, mi aspettava la collega di lettere, che mi prese da parte subito incalzandomi: «Allora, tu sei il professore di religione, sei riuscito a consolarli? Io al tuo posto avrei parlato del Paradiso e avrei detto che sicuramente il padre di Giulia è già lì… E Giulia deve stare tranquilla...».

La guardai con stupore, scegliendo le parole giuste per risponderle: «Anch’io credo nel Paradiso e nella vita eterna, ma il fatto che insegno religione non vuol dire che ho tutte le risposte in tasca sempre pronte. Ho cercato di stare vicino alle loro domande, di farli sentire meno soli davanti a questo dolore grande… Non pensi che Gesù avrebbe fatto lo stesso?». Lei mi squadrò come si guarderebbe un eretico – non le ero mai stato troppo simpatico, credo – e mi disse: «Sì certo, ma anche molti santi di fronte alla morte hanno cercato di aiutare l’uomo, e lo hanno fatto concretamente, ad esempio ricordo un miracolo di sant’Antonio che risuscitò un bambino piccolo annegato restituendolo alla madre!».

Le sorrisi: «Anch’io, se potessi, risusciterei il padre di Giulia, togliendole questo immenso dolore… Penso però che anche i santi di cui parlavi hanno soprattutto saputo stare a fianco delle persone vive di fronte al grande mistero che è la morte: credo sia questo il miracolo dell’amore più grande. Solo quando si è imparato a stare lì con loro, e per noi ciò significa stare vicino ai nostri ragazzi, allora potremo parlare di che cosa un credente si aspetta dopo la morte, non credi?». Il dialogo si interruppe, lei guardò l’orologio, era ormai tardi… abbozzò un saluto, tra lo stizzito e l’imbarazzato, mi voltò le spalle e in quel corridoio io mi sentì veramente molto solo: era difficile «stare» col dolore vero, non solo per i giovani, ma anche per gli adulti.

Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»! 

Data di aggiornamento: 07 Dicembre 2022
Lascia un commento che verrà pubblicato