Pane e gentilezza
Sono passate da poco le 13 quando giungo alla grande casa giallo ocra dei primi del Novecento, a pochi passi dalla stazione di Padova. Mi accodo agli ospiti che stanno aspettando di varcare la soglia: una porta regola il flusso delle persone che, prima di accedere all’interno, devono mostrare una tessera. Io la tessera non ce l’ho, sono «un’ospite pagante». Dopo l’ok dell’operatore all’ingresso, entro e mi metto in coda alla cassa, una coda ordinata, silenziosa e «multicolor»: ci sono parecchi africani, un latinoamericano, qualche persona dell’Est Europa, un paio di italiani.
Quando arriva il mio turno, chiedo un piatto di pasta al pomodoro: «50 centesimi – mi dice l’operatore alla cassa –, mentre, se vuole il pasto completo (primo, secondo e contorno, oltre a frutta e pane che vengono offerti a tutti) il costo è di 2 euro». Pago il mio piatto di pasta e mi metto in coda al secondo sportello. L’operatrice che prende il mio scontrino vede che sono una faccia nuova e per giunta un po’ disorientata, e fa finta di non leggere la cifra stampigliata: «Lei ha pagato il menù completo» mi dice con gentilezza, cercando di non mettermi in imbarazzo, perché sa bene che chi è in difficoltà tende a dissimulare il proprio bisogno in una dolorosa dignità. Mi dispiace dover rifiutare, ma la ringrazio con un sorriso che lei ricambia.
Afferro il mio vassoio e vado a sedermi nella grande sala ordinata e pulita, con le pareti di un giallo tenue, le mattonelle celesti e allegre stelle di carta che pendono dal soffitto. Pranzo seduta al tavolo con un giovane latinoamericano che mi augura «buon appetito», mentre, attorno a noi, una ventina di altre persone mangiano chiacchierando amabilmente. Alcuni volontari sono pronti a riempire d’acqua i bicchieri di chi lo desidera. Il tutto avviene sotto lo sguardo vigile di una statua di sant’Antonio che pare voler vegliare benigno su questa umanità dolente. Sono alle Cucine economiche popolari di Padova, un’opera della diocesi che, dal 2019, ne ha affidato la gestione alla Fondazione Nervo Pasini (una Fondazione di partecipazione istituita dal vescovo Claudio Cipolla, nel 2017, proprio per gestire le cucine), e che quest’anno compie i 140 anni di vita.
Finito il pranzo (ottimo, per inciso) ho appuntamento con suor Albina Zandonà, religiosa francescana elisabettina che da cinque anni dirige la realtà caritativa. «Le Cucine sono state fondate nel 1882 da Stefania Ezterodt Omboni – mi racconta la direttrice, una donna con lo sguardo intenso e un modo di porsi gentile e asciutto al contempo –, che voleva così andare incontro ai bisogni dei poveri che si erano improvvisamente moltiplicati a causa di una gravissima alluvione che aveva colpito la città proprio il 17 settembre di quell’anno, gettando nella miseria una larga fascia della popolazione».
La prima sede fu un locale vicino alla chiesetta di San Daniele, in pieno centro, dove dall’ottobre 1882 al 30 marzo 1883 le Cucine sfamarono ogni giorno almeno 500 poveri. «Doveva essere un’opera temporanea – continua suor Albina –, ma con il passare dei mesi la situazione non accennava a migliorare e così l’anno seguente, in coincidenza con l’arrivo a Padova di un vescovo “illuminato”, Giuseppe Callegari, Stefania Omboni propose a lui di assumere la gestione delle Cucine. Il vescovo non solo accettò la proposta, ma assunse la presidenza della realtà caritativa, affidandone da subito la gestione alle suore terziarie elisabettine, mettendo anche a disposizione dei più ampi locali adiacenti all’episcopio». Nei primi decenni la sede si spostò più volte, anche per venire incontro ai bisogni nuovi che man mano emergevano, finché, nel 1914, fu spostata in via Tommaseo, nei pressi della stazione ferroviaria, dove tuttora si trova.
Ciascuno di noi è una risorsa
«Il volto delle Cucine negli anni è cambiato radicalmente – prosegue la religiosa –. Se infatti fino agli anni ’70 qui venivano anche lavoratori e studenti, da quel momento in poi ad arrivare sono state soprattutto persone nullatenenti, con problemi di dipendenza, senza fissa dimora, ex carcerati, migranti, nomadi… Persone che non avevano solo bisogno di rifocillarsi, ma anche di potersi lavare e cambiare, di ricevere assistenza medica, di essere ascoltati. Così, nel 1991, la sede di via Tommaseo è stata ristrutturata e ampliata per ricavare spazi per le docce, per la distribuzione dei vestiti, l’ascolto e gli ambulatori per le cure mediche che vengono assicurate da medici e infermieri volontari».
Attorno alle Cucine si muove un piccolo esercito di circa 120 persone tra suore (cinque), volontari (un centinaio) e dipendenti (tredici): «Il bene va fatto bene – sottolinea suor Albina –, per questo, oltre alla buona volontà, servono anche professionalità adeguate». Ogni giorno arrivano qui 170 persone a pranzo e circa 70 a cena, munite di buoni forniti loro dalla Caritas o dal Pane dei poveri, altra realtà caritativa diocesana. Poi ci sono gli «ospiti paganti», il cui numero varia di giorno in giorno. «Le persone giungono da 82 Paesi diversi; gli italiani sono circa il 18 per cento – chiosa suor Zandonà –. Sono persone in difficoltà momentanea a causa della perdita del lavoro, ma più spesso condannate per varie ragioni a vivere in situazioni di grave marginalità. Il più delle volte non hanno una casa, vivono una povertà assoluta aggravata dalla solitudine». Il clima che si respira tra queste mura è sereno.
A farla da padrona è la gentilezza: «Chiunque è trattato con dignità e i pregiudizi, talvolta inevitabili, vengono gestiti in modo costruttivo, nella consapevolezza che tutti siamo una risorsa – specifica la direttrice –. Mi piace definire questo luogo un “laboratorio di umanità”, perché qui si impara a relazionarsi con chiunque, a gestire i conflitti in modo creativo. Si maturano atteggiamenti di fiducia e di flessibilità, ci si abitua a guardare il mondo anche con lo sguardo degli altri, si imparano l’ascolto e un atteggiamento meno giudicante, tutte attitudini che risultano preziose in qualsiasi contesto. Per questo, non solo ospitiamo giovani che vogliono per un periodo venire a sperimentarsi nel volontariato, ma stiamo avviando anche una nuova forma di “volontariato d’impresa”, grazie alla quale proponiamo alle aziende di fare qui la formazione. Alle realtà aziendali che, per favorire lo sviluppo di alcune specifiche abilità nei loro dipendenti, organizzano magari escursioni nella natura o propongono percorsi di orienteering, noi suggeriamo, invece, l’esperienza di volontariato alle Cucine. Non siamo un ente di formazione riconosciuto, ma, con l’aiuto di un formatore esperto, abbiamo approntato un “pacchetto” per favorire l’apprendimento di alcuni skill come la creazione di relazioni multiculturali, la gestione dei conflitti, la consapevolezza della forza del dono reciproco, la flessibilità. Il tutto in un luogo tutelante, dove nessuno è lasciato solo».
Le Cucine vivono di generosità. La diocesi si accolla la parte principale delle spese, il Comune contribuisce, ma poi ci sono i benefattori: «L’industriale che fa periodicamente una cospicua offerta, ma anche la “badante” che, memore dell’aiuto ricevuto appena arrivata in Italia, ora dona 10 euro al mese. E poi ci sono persone che ogni mese, in segreto, ci lasciano nella cassetta della posta ciò che possono dare». «Ho negli occhi tanti volti che hanno lasciato in me dei profondi ricordi – conclude suor Albina –. Il momento più bello, però, è sempre quello in cui riesco a scorgere in una persona dei piccoli segnali di futuri possibili, maturati anche grazie alla mano tesa che ha trovato qui». Perché è vero che, come scriveva Emily Dickinson, «Se potrò alleviare il Dolore di una Vita / O lenire una Pena / O aiutare un Pettirosso caduto / A rientrare nel suo nido / Non avrò vissuto invano».
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