Da Capo Nord a Timbuktu
Viaggiare fa sentire liberi. È un modo di essere. La soddisfazione di poter raccontare, anche solo attraverso delle semplici istantanee ciò che hanno visto i nostri occhi, gratifica e fa sentire appagati. Il vero viaggio inizia quando si comincia a studiare e ad accarezzare con le mani una cartina geografica. È sempre la mente che muove il primo passo.
In passato pensavo che scattare una fotografia fosse come piantare un seme nel terreno della storia. Un seme che forse sarebbe diventato un albero. Oggi, sommersi come siamo da migliaia di belle e inutili immagini, non credo sia ancora così importante scattare una foto. O meglio, non credo sia ancora così importante scattare «solo» una fotografia.
Negli ultimi decenni la società è irrimediabilmente cambiata: la superficialità dell’occhio umano scivola troppo spesso sulla realtà, non c’è più tempo né volontà per soffermarsi ad approfondire le situazioni. Ecco quindi il dovere, etico e morale, di cercare e intraprendere una nuova strada. La storia è importante per le generazioni future, non raccontarla equivarrebbe a cancellare i fatti di oggi. Resterebbero solo appannati ricordi tramandati oralmente. Non ce lo possiamo permettere, prima o poi il vento se li porterebbe via.
Molte volte ci specchiamo guardando le nostre fotografie. Rappresentano sempre più spesso quello che siamo: le amicizie che abbiamo coltivato, le persone che portiamo nel cuore, le donne o gli uomini che abbiamo amato, i nostri stati d’animo passati e presenti, ma soprattutto la polvere che le nostre scarpe hanno sollevato durante il cammino della vita.
Ecco allora che, attraverso la semplice rappresentazione di un frammento di vita quotidiana fissata su un sensore o un supporto di gelatina, riaccendiamo quel mappamondo che da bambini facevamo ruotare nei nostri sogni. Per istinto ricominciamo a muovere le dita: sfiorando la plastica del globo, toccandola con passione, fermandoci sulle sfumature di colore che passano dal verde al giallo. Lo ruoteremo ancora quel planisfero, lo faremo più volte. Fino a stringere i denti per non stancarci mai. La rappresentazione del pianeta, quella che alcuni uomini hanno pensato di appoggiare in cima al mondo a Capo Nord, sarà solo un punto di partenza, per iniziare nuovamente a viaggiare e a muovere i primi passi verso nuove destinazioni.
Lo spazio sembra infinito, ma solo quando cielo e terra si prendono per mano accarezzandosi attraverso la linea retta dell’orizzonte. Si guarda avanti, nella speranza di trovare la chiave che possa aprire la stanza dei segreti. Ci si insabbia in un ricordo da costruire, ci si ferma per voltarsi con l’ambizione di voler conoscere. Di capire. Di amare. Attraverso i media osserviamo sempre troppo velocemente il mondo che ci circonda e la vita che ci passa accanto. Osservare un paesaggio richiede tempo per la sua assimilazione.
Guardare negli occhi una persona richiede sensibilità e istanti infiniti per non cadere nella marginalità di un pensiero fugace. Nell’incisione di una fotografia a colori abbiamo la potenzialità di definire l’«accadere» in tempo reale e univoco. Nella monocromia di un’immagine in bianco e nero, invece, l’interpretazione cambia, non è univoca: il messaggio lascia spazio all’interpretazione e alle emozioni personali. Raccontare attraverso la luce e le parole significa essere sempre in grado di ricostruire un sentimento. Quello che noi stessi, grazie al solo gesto di mettere a fuoco o di pensare, abbiamo decodificato da uno stato d’animo.
Si viaggia per fotografare, si fotografa per viaggiare. Nella nostra esistenza ci si può avventurare anche fino a Timbuktu, nel luogo non luogo dove il mare di sabbia avvolge tutto. Ci si può anche fermare per riguardare il mondo e fare ordine tra i sentimenti. Per capire che la fotografia è solo un pezzo di carta, da regalare alle persone a cui vogliamo bene.
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