Tutti i colori della vita
Vivere le relazioni non è cosa facile né scontata, oggi come un tempo. Uno degli aspetti più critici è legato a come gestiamo sentimenti ed emozioni. Che cosa facciamo di quel che sentiamo? Mi pare che spesso non abbiamo una capacità sufficiente di provare i sentimenti, secondo i diversi significati di questo verbo. Anzitutto provare vuol dire darsi la possibilità di sentire: questo non è ovvio. Accade, infatti, che non lasciamo abitare in noi un sentimento per timore che ci faccia male, specialmente quando si tratta di rabbia, di paura ma anche di gioia. Un secondo aspetto del provare è riconoscere il tipo di sentimento, e qui ci vuole un’alfabetizzazione affettiva che ci permetta di chiamare per nome ciò che stiamo percependo. È una competenza che si acquisisce soprattutto in famiglia, ma che va integrata anche attraverso altre agenzie educative, pena l’incapacità di cogliere i colori della vita, come se tutto fosse bianco e nero.
C’è anche un terzo significato spesso dimenticato: provare un sentimento vuol dire non solo avvertirlo, ma anche metterlo alla prova. Qui entrano in gioco l’intelligenza, per comprendere che cosa sto sentendo e che significato ha, e la volontà, per decidere che spazio dargli nella mia vita. Spesso i sentimenti, quelli forti, sono tiranni, perché vorrebbero prendersi tutto lo spazio, facendoci entrare in uno stato di euforia o afflizione che ostacola la nostra capacità riflessiva. Siamo davvero noi stessi in queste circostanze? Direi di no, perché siamo in balìa di quello che sentiamo, senza che intervengano le altre facoltà della nostra persona, in particolare l’intelligenza e la volontà. Senza di esse non esprimiamo l’autenticità di noi stessi, ma finisce che l’automatismo prevale sulla nostra vita, siamo guidati da quel modo di fare o agire a cui siamo abituati (o di cui siamo schiavi).
Va di moda, oggi, cercare e chiedere la spontaneità nel modo di comportarci. Spontaneo, nel linguaggio comune, ha il significato di non forzato, non costretto da altro. Essere spontanei vuol dire forse lasciar fluire senza freno i nostri sentimenti, le emozioni, senza provarle, ma mettendole direttamente in mostra? Spesso le agenzie di comunicazione, nel tentativo di guadagnare pubblico, cercano proprio questo per una spettacolarizzazione delle emozioni: c’è bisogno di toni accesi o di mettere in mostra aspetti intimi della persona, che facciano commuovere o compatire. Ma è spontaneità? Direi che, piuttosto, è un’esternazione dei nostri automatismi, della reazione a pelle che abbiamo, che però non esprime fino in fondo chi siamo veramente, ma segue la tirannia dell’emotività, del sentimento non veramente provato. All’opposto c’è il doverismo, per cui al centro dell’agire sta il senso del dovere, la volontà: si risponde solo a princìpi e regole, mettendo da parte il mondo emotivo e i sentimenti. Così, però, si rischia di rinunciare alle relazioni stesse, in nome della legge, costruendo un personaggio artefatto e un tantino fuori dal mondo.
Il desiderio di autenticità ci porta a cercare un equilibrio tra sentimenti, intelletto e volontà, senza assolutizzare un aspetto della nostra vita, ma permettendo che ciascuno di essi custodisca e metta alla prova gli altri. Ma c’è di più. Nel Vangelo troviamo un mare in tempesta, che ben rappresenta l’essere in balìa dei sentimenti. I discepoli svegliano Gesù e lui dice al mare: «Taci, calmati!» E la calma ritorna; poi riprende i discepoli: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (cfr. Mc 4,35-41). Forse, per provare meglio i nostri sentimenti abbiamo bisogno di una relazione stabile alla quale affidarci, che ci prometta che, per quanto il mare sia agitato, non andremo perduti.
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