Educare al conflitto per combattere la violenza
Il ripetersi di fatti di cronaca sempre più tragici, pur trattandosi di casi limite ed estremi, spinge alcune mamme a scrivermi. Silvia mi chiede: «Ma questi uomini, da che tipo di genitori sono stati cresciuti? Dietro a queste violenze ci sono delle carenze educative?». Anche Milena mi domanda: «In che modo si può lavorare sulla costruzione di un senso del rispetto in adolescenti che sembrano poco propensi ad avvicinarsi a certe tematiche?». E Grazia mi fa una richiesta ancora più specifica: «Come parlarne ai figli? Nella classe del mio, terza elementare, hanno raccontato di venti coltellate alla vittima... Mi aiuti a capire». Si tratta principalmente proprio di un problema educativo, anche se non solo. Tanta parte sta lì, nei meandri della formazione dei bambini e delle bambine, dei ragazzi e delle ragazze. Ed è anzitutto un problema di padre.
C’era una volta il padre-padrone ben raccontato nel famoso libro di Gavino Ledda, Padre padrone, appunto, dove un bambino che vive nella Sardegna profonda non vede l’ora di andare a scuola, ma, proprio mentre è a lezione, il genitore entra in classe con irruenza e dice alla maestra: «Sono venuto a riprendermi il ragazzo. Mi serve a governare le pecore e a custodirle… è mio». Il bambino, seppur scosso, capisce che cosa sta chiedendo il padre e lo segue. Dopo vent’anni avrà la possibilità di studiare laureandosi in Lettere e diventando un principe dell’erudizione. Un ribaltamento straordinario che quasi mai avveniva nel mondo del patriarcato.
A partire dagli anni Ottanta-Novanta, una sorta di salto cosmico ha portato dal padre-padrone al papà peluche o mammo: una figura molle, un po’ inconsistente, il cui scopo è giocare con i figli, farli divertire mettendosi alla pari. Tra questi due opposti, non si sa francamente quale scegliere. Senz’altro il padre-padrone era una figura terribile, ma il padre amico non consente al maschio l’elaborazione di una virilità che sappia costruirsi sul coraggio, sulla capacità di rispettare se stessi rispettando gli altri, ossia su una forza che non diventa violenza e sopraffazione. Aspetto che nasca una nuova figura paterna che aiuti i figli e le figlie in un’operazione fondamentale per la vita: saper gestire i conflitti, saper litigare bene. Per guidarli a capire le ragioni altrui, a vivere con empatia le contrarietà, sapendo cogliere nella differenza e nel punto di vista diverso una nuova occasione. Ovviamente abbiamo anche bisogno di madri che educhino senza soffocare, considerando le autonomie dei bambini, accettando la loro crescita senza atteggiamenti iperprotettivi e morbosità.
Insomma, ci vogliono padri e madri che sappiano restituire ai figli il gusto del buon litigio, quella capacità che preserva dalla violenza. Perché dietro a ogni uomo violento si cela sempre un carente conflittuale, ossia un bambino che è stato o represso totalmente o inibito nella sua necessaria formazione a gestire bene le relazioni e le contrarietà con i propri compagni.
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