Inno alla pace
Poliedrico, anticonformista, coraggioso: il cinema di Liliana Cavani, coronato da tre premi alla carriera, si impone «per la testimonianza, significativa per sincerità e intensità, del difficile cammino alla ricerca del significato spirituale della vita» (Premio Robert Bresson 2018). Parlare di cinema con la Cavani ha il sapore di una chiacchierata sul senso della vita, senza pudori ma con vigile profondità. Più che servire il cinema, preferisce considerare che il cinema abbia servito lei, in altre parole che il cinema le sia servito.
Msa. Nella sua vita, lei ha ricevuto importanti riconoscimenti. Lo scorso anno, alla Mostra del Cinema di Venezia, il Leone d’Oro alla carriera consegnatole da Charlotte Rampling.
Cavani. È la prima volta che una donna riceve questo premio. Mi vergogno di essere la prima, ma bisognava pur iniziare. Oggi vi è una maggiore parità. Tuttavia il settore è ancora dominato dalla presenza maschile per il tipo di educazione con cui si crescono bambini e bambine. Lo affermo senza toni polemici. Dopo ottant’anni il cinema non è ancora cosa di donna.
Qual è la prima lezione che i giovani registi dovrebbero imparare?
Ho studiato Lettere antiche a Bologna. Se ho potuto fare certi film è stato grazie al fatto che ho approfondito la storia antica. Ai giovani consiglio di prepararsi sapendo che se non conosci la storia non sai dove vai. Essa serve per capire i discorsi dei politici e farsi un parere, come la storia di un amico serve per capire se ti vuole bene. La storia è un termine di confronto.
Com’è il suo rapporto con la macchina da presa e quali sono, per una regista, le maggiori difficoltà?
Bisogna avere passione per raccontare, ad esempio facendo i documentari. Il cinema esiste solo con gli altri; inoltre è più popolare di un romanzo. Ho girato un documentario su un maresciallo anziano; la destra non voleva che andasse in prigione (Philippe Pétain: Processo a Vichy, 1965). L’ho fatto con poco materiale, ma ho realizzato altri documentari interessanti, lavorando su ciò in cui credevo. Segnalo la Storia del Terzo Reich (Rai, 1961) della durata di circa quattro ore in quattro puntate, e l’Età di Stalin (Rai, 1962) che oggi deve fare una grande impressione: gli ucraini si erano messi coi nazisti. In alcuni lager c’erano le guardie ucraine. Ho utilizzato dei materiali della Biblioteca del Congresso, della Biblioteca di Parigi, non molti materiali dell’Archivio Luce.
All’inizio degli anni Sessanta, quando studiava al Centro Sperimentale di Cinematografia, ha realizzato due cortometraggi.
Il corto è una forma breve, come la fetta di una torta. Al Centro Sperimentale ero da sola. C’era un’altra donna ma poi mi sono trovata da sola. Amavo il cinema e mia mamma da piccola mi ci portava, amando lei i film di Hollywood, io meno. Ai tempi del liceo, dal momento che non arrivavano le pellicole di Bergman, di Rossellini o di Dreyer, con altri due amici di Carpi andavamo a Bologna a prendere le pellicole, e ci davano una sala per fare le proiezioni. Poi frequentai il Centro Sperimentale, io che avevo dato l’esame di sanscrito all’università! Mi ero laureata a maggio. A settembre mi sono iscritta e sono andata a Roma. Marco Bellocchio ha fatto recitazione, poi è passato al corso di regia, ma lui era al primo anno, io al secondo. Quando ho finito, ho vinto il concorso alla Rai; ciò mi ha permesso di lavorare sulla Storia del Terzo Reich, sulle donne della Resistenza, su Stalin.
Come ha scelto i temi dei documentari televisivi degli anni che vanno dal 1961 al 1965?
Mi imbatto in cose che mi interessano, come ad esempio il lavoro sulle donne della Resistenza (La donna nella Resistenza, Rai, 1965). Trattando della Shoah, ho interpellato varie donne finite nei lager. Da allora, ogni anno torno a Dachau. Le partigiane francesi mi hanno educato a non fare mai un gesto violento contro le donne. Ho intervistato una milanese sopravvissuta ai lager che non voleva fare l’intervista e che mi ha raccontato la sua storia come gesto per la sopravvivenza. Non si è spiegata di più. Un’altra donna di Bergamo è stata legata mani e piedi, torturata.
Parlando dei suoi tre lavori su san Francesco, com’è riuscita a esprimere una riflessione sulla spiritualità?
Un’università degli Stati Uniti sta preparando un libro sul mio Francesco. È un personaggio che bisogna approfondire perché lui ha fatto molto. L’ho capito nel tempo, e ho compreso la sua lezione. L’importanza dei miei lavori su Francesco è stata la documentazione. Di lui si capisce di più quando diventa più vero. Per avvicinarmi alla figura di Francesco avevo letto nel 1966 il testo, trovato alla stazione di Bologna, Vita di S. Francesco d’Assisi del professore calvinista Paul Sabatier. La Rai non voleva trasmettere Francesco d’Assisi (miniserie del 1966). Un responsabile dirigeva un cinematografo e dissi che mi assumevo io la responsabilità. La mia è stata una libertà tenuta a bada, anche se ha anticipato il ’68.
La componente mistica è presente nei suoi lavori, così come il rapporto con la religione e il sovrannaturale. Lei ha affrontato anche temi etici e metafisici.
La religione è una scelta personale: ognuno ha la sua, e deve essere libero di coltivarla. La religione di Stato non c’è più e questa è stata una conquista. Il Cristianesimo ha dato dei contributi, ad esempio la fraternitas di Francesco che capisce che la società era cambiata. Nella Divina Commedia Dante parla bene di Maria e di Francesco.
In Galileo, film del 1968 sul tema dell’abiura, lei ha messo in luce il conflitto tra scienza e religione.
Per questo film ho dovuto tagliare Giordano Bruno che gridava di dolore sul rogo. Inoltre ricordiamo tutti che il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo è stato tolto dalla censura da papa Wojtyla. Il film Galileo si è arenato: è finito a Mediaset, e da allora non si riesce a vederlo.
Ha fatto la sua battaglia pacifista con le opere su san Francesco, Alcide De Gasperi, Albert Einstein e Milarepa. È servita alla causa?
Quando ho fatto Einstein per la tv, ho voluto vedere che cosa fosse successo veramente. Dopo il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki la temperatura era altissima, sono morte tante persone, è tutto filmato. Nella pellicola Oppenheimer, Christopher Nolan, pur trattando del tema se lanciare o no l’atomica, non ha fatto vedere il filmato dei lanci. Il punto era chi la costruiva per primo, e i primi sono stati gli Stati Uniti. Si vede il test dell’atomica nel deserto del Nuovo Messico, ma non si fanno vedere gli effetti dello sgancio in Giappone. Hanno realizzato un film senza far vedere nemmeno un fotogramma del disastro. Dovevano farcelo vedere. La storia dei due piloti che hanno sganciato la bomba: uno si è suicidato, l’altro è finito in manicomio. Hanno creato un orrore che non s’immaginavano, non sapevano quale sarebbe stato il danno sulle persone. Ma si può fare un film così, senza il desiderio di dire dove finisce quella cosa lì? Finisce con la censura per questioni politiche. Per me aver fatto i documentari sulla storia significa aver visto i filmati. Penso che siamo abbastanza incapaci e non sappiamo costruire un metodo. Sulla questione della difesa dobbiamo fare qualcosa: è inaccettabile l’uso della scienza per le armi. Siamo bisognosi di una cultura di pace: occorre sempre trovare una soluzione che non sia con le armi. L’Iliade è un poema epico che parla di una guerra molto antecedente: le battaglie erano «gare» e i combattenti erano forzuti. Francesco fu contro la guerra in quanto la guerra è antiumana. La prima cosa che ha detto è stata: «Andate nel mondo e fate la pace».
Parliamo de I cannibali (1970) presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al 23° Festival di Cannes: una reinterpretazione moderna dell’Antigone di Sofocle, che affronta l’equilibrio tra compassione e legge in un contesto politicamente carico.
Il discorso politico sul potere è ancora attuale poiché non c’è coincidenza tra legge e giustizia, e questo ce lo insegna Sofocle. Oggi sembra che la legge non garantisca la giustizia. Mi cercò, in seguito all’uscita in Italia, la Paramount per distribuire I cannibali in America, ma avrei dovuto cambiare il finale perché il film termina male con l’eroina e il compagno che vengono uccisi. Sarebbe cambiata tutta la storia che viene da Antigone. Se si fosse guastato il finale non sarebbe più stata la tragedia.
Quest’anno celebriamo il centenario della nascita di Franco Basaglia. Nel 1971 con L’ospite lei ha anticipato la tematica.
Il mio film è ambientato nel manicomio di Pistoia. In occasione di una proiezione de I Cannibali, alla conclusione del film ho notato un gruppetto di persone «strane»: erano dei volontari cattolici che passavano i fine settimana con i «poveri matti», stando con loro e portandoli al cinema. Mi hanno accompagnato a vedere il manicomio, dove sono rimasta di stucco, a cominciare dal trattamento che riservavano ai pazienti la mattina: pillole con il caffelatte, ed erano ansiolitici per calmarli. L’idea mi è venuta osservando un caso reale: nel film, Anna (Lucia Bosé) non ricorda la sua storia. Era rimasta incinta, ma non lo sapeva.
In che modo ha iniziato a lavorare con il regista Luchino Visconti?
Rimase incantato da Il portiere di notte. Il nostro cinema però è molto diverso a causa della cultura differente. Il mio unico film neorealista è Francesco. Avevo visto Charlotte Rampling ne La caduta degli dei di Visconti, ma se non l’avessi incontrata di persona non l’avrei mai presa, poiché io stavo cercando un’attrice particolare per Il portiere di notte. E, in effetti, lei lo era per quel ruolo.
Nel film Dove siete? Io sono qui del 1993, c’è una scena cult, quella in cui Valeria D’Obici, la zia del protagonista sordo, per fargli sentire il suono gli fa appoggiare la mano su un amplificatore.
È un film sui sordi, di cui si sta realizzando il restauro. L’accoglienza al Festival di Venezia è stata buona. Fu ispirato da una pièce teatrale fatta dai sordi che mi diede un senso di angoscia. Così andai a Roma alla scuola per sordomuti e notai che tra di loro si capivano. Ho voluto fare un film con le considerazioni su questa categoria perché è come se vivessero in «un’altra zona».
Lo scorso anno, ispirato al libro di Carlo Rovelli, consulente scientifico per il film, è uscito L’ordine del tempo. Che cosa l’aveva colpita dell’idea del tempo e della fisica quantistica nel libro di Rovelli?
Mi interessa la riflessione sul tempo. Diciamo «tempo» per dire «bel tempo», «il tempo che ci perseguita», «il tempo da affrontare», e se non capita qualcosa diciamo che «c’è tempo». Ma se succedesse qualcosa nell’atmosfera? Abbiamo degli osservatori molto potenti, ma se un astro incrociasse la traiettoria terrestre? Controlliamo la nostra vita, ad esempio con i medicinali, ma salterebbe tutto con una cosa del genere. Chi sono, dove sono, dove vado? Questo meteorite ce lo stiamo meritando? In termini scientifici, l’impatto con un altro astro cambierebbe la storia. Allora, la mia vita che senso ha? Un astro che si scontra con la terra è solo fantascienza? Ti fai delle domande. Il tempo ci perseguita. Sappiamo che la vita dura un tot, siamo abituati alla fine naturale, ma non a gestire l’imprevisto. Non facciamo niente per difenderci dall’imprevisto. Ho messo questi pensieri in una storia di persone aggiungendo al libro un lato della narrazione. Alle paure e all’ignoranza ho anteposto i sentimenti, davanti a un possibile pericolo che ci potrebbe capitare. La nostra vita può finire da un momento all’altro, e hai solo te stesso e le persone che ami.
Qual è l’opera teatrale o lirica che vorrebbe dirigere dopo Iphigenie en Tauride, Médée, La Traviata, Cavalleria rusticana, Macbeth?
Mi sono divertita a fare teatro. Tuttavia preferisco il cinema, perché sono storie nuove, contemporanee. Anche girare un film su Francesco è qualcosa di nuovo, per capire di più sulla vita civile, sullo stato di salute della Chiesa. Il cinema è una comunicazione sul presente anche se riguarda una cosa passata.
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