Oltre il muro... l'inferno
Abitano lieti coi loro cinque figli, sani e biondi, in una villa privata con giardino e orto. I cani scodinzolano dentro e fuori casa, ai bordi della piscina privata. Il profumo primaverile dei fiori riempie di gioia. D’inverno la coltre di neve tinteggia di bianco il paesaggio, rallegra le marachelle dei bimbi e raccoglie tutti attorno al camino, per un tè o una buona lettura, mentre la servitù, impeccabile nella sua obbedienza, serve a tavola i tipici dolci polacchi, rammenda con cura i vestiti e pulisce gli stivaloni del capo famiglia Rudolf Höss. Un picnic nei prati, una risalita del fiume in canoa, per pescare, ravvivano la laboriosa monotonia domestica. Ma qualcosa è stonato. Oltre il muro di proprietà, coronato di fili spinati, si intravedono soldati a cavallo, altane per sentinelle, ciminiere sempre accese col loro fumo continuo, l’odore dolce di bruciato, i residui di cenere, la polvere irrespirabile. Qualche sparo. Urla indistinte. E poi un rumore di fondo, grottesco e sordo, lamentoso e lugubre. I bambini si abituano, gli ospiti fingono di non sentire, qualche parente desiste, inquieto e spaventato. I coniugi Rudolf e Hedwig hanno altro cui pensare: la carriera militare, il ménage familiare, l’educazione dei figli.
Lo spettatore di La zona di interesse (GB/Polonia/USA 2023) sa già dove siamo. Ad Auschwitz, in Polonia, nel 1943, nella tenuta di un efficiente funzionario nazista, proprio di fianco all’ordinato campo di concentramento, scandito da una disciplina ferrea e banale. Il comandante Höss è realmente esistito ed ebbe l’incarico di escogitare un’uccisione più rapida, grazie al gas Zyclon B immesso nelle camere di sterminio. «Interessengebiet» (sfera d’influenza, zona di interesse) è l’area che per decine di chilometri circonda il lager. Di quanto avviene nel carcere, non vediamo nulla. La macchina da presa, paralizzata e immobile per l’angoscia, non si spinge oltre il muro. La pellicola è scialba nei colori, distanziante, fredda come un filmino di famiglia mal riuscito. E noi immaginiamo l’orrore temuto da un Occidente colto e ricco, che vive ai bordi dell’abisso infernale. Intanto i polacchi della zona ricavano qualche utile, i tedeschi preparano la «soluzione finale», meticolosa e macabra. Gli ebrei aspettano di morire.
Il pensiero va all’ambiguo presente del nostro tardo capitalismo, alle cellule terroristiche insediate vicino ai nostri appartamenti; alla devastazione ecologica; alla proliferazione nucleare; all’invasione della plastica; agli squali della Borsa che nuotano attorno ai risparmi onesti; agli zombi da fentanyl. Associamo il lager al mare che inghiotte a migliaia i corpi di sfortunati migranti, mentre noi, sulla terraferma, gustiamo il paesaggio e le spigole alla brace, intrattenuti da beoti passatempi televisivi. Fingiamo di non sentire il tonfo dei salvagenti, le sirene dei guardiacoste. Siamo al di qua dell’Africa, per fortuna…
Luce e buio
L’etica del film La zona di interesse di Jonathan Glazer (inglese, classe 1965, l’autore di Sexy beast, Birth – Io sono Sean e Sotto la pelle) si manifesta nella cecità di chi non vuole o non può più vedere. Lo schermo diventa di colpo monocromo: un grande nero, un completo bianco, un rosso violento. Intanto nei timpani ci rimbomba un acufene dissonante. Una bambina è ripresa di notte mentre deposita qualcosa d’indistinto (mele, cibo per i detenuti) nei campi da lavoro. La telecamera termica svela il suo corpo che brucia luminoso nell’ombra del paesaggio. Come in una fiaba o in un sogno che parlino di orchi, streghe e incantesimi. Il muro non basta. I bambini intuiscono la violenza e la mimano nei loro giochi. Gli adulti si ammalano. Le madri paradossalmente si affezionano al ruolo coatto di regine dei sepolcri: danno figli al Führer, li allevano ariani nel cuore, spaventano le cameriere con battute taglienti, consolano gli insonni con qualche tisana locale. Si sanno invidiate perché dispensano vita e morte, dopo aver stretto un patto demoniaco con la gerarchia maschile ossessionata dal mito del Reich, il regno dei forti, dei puri, dei vincitori. La bionda Hedwig si adorna dei gioielli confiscati agli ebrei. Gli armadi si riempiono dei vestiti galanti che i cadaveri non possono più indossare.
Seduti al cinema, non sfuggiamo alla condanna. Il titolo di testa La zona di interesse sfuma progressivamente nel buio dello schermo. Gli umani hanno perso interesse per i loro fratelli del ghetto. Il film ci mostra come hanno fatto questi criminali a non impazzire, a conservare funzionalità sociale. Noi spettatori, coinvolti da una visione impraticabile, ci chiediamo che cosa siamo qui a fare, nell’ombra, tra sconosciuti e inattivi voyeur. Siamo come le folle che visitano i lager e guardano i cumuli di resti anonimi sperimentando inquietudine, eccitazione, angoscia e impotenza. Arriviamo troppo tardi sui luoghi dove lo sterminio ha lasciato reliquie e fantasmi, cioè ombre, come quelle di cui è fatto il cinema.
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