Una luce all’inferno
Ci sono delle chiamate a cui proprio non si vorrebbe rispondere. È quello che prova suor Laura Nichele, suora della Divina Volontà, originaria di Cassola (VI), quando, circa 35 anni fa, le viene proposto di aprire una missione in Camerun con altre sorelle: «All’annuncio, il mio corpo tremava come se la terra non potesse più sostenermi – racconta –. Dal profondo del mio cuore, ho pensato che io non ero proprio la persona giusta».
Suor Laura passa giorni in grande tumulto interiore, poi scommette con Dio: «Saprò che è la tua volontà solo se metterai nel mio cuore la pace che desidero». La notte seguente riesce a dormire. «Oggi posso dire che il Signore ha saputo estrarre da me il meglio». E il meglio è stranamente vicino a ciò che sembra l’inferno; i primi anni suor Laura li trascorre nell’estremo Nord del Camerun, a Dourum, in una missione raggiungibile solo abbarbicandosi con il fuoristrada su un ripido sentiero di sassi: «Abbiamo capito subito che il Signore ci aveva precedute – racconta –, per l’accoglienza straordinaria della gente. Più il tempo passava, più questa terra diventava la nostra amata terra, nonostante il caldo, la povertà, le epidemie».
Ma all’inferno non c’è limite. Se ne accorge suor Laura quando ancora una volta le viene chiesto di trasferirsi. Stavolta a Yaoundé, la capitale. Il cambio è scioccante: non solo si lascerà alle spalle la dimensione dei villaggi rurali, ma dovrà continuare un progetto di salute nel carcere centrale di Nkondengui, iniziato dalla congregazione diversi anni prima. La tentazione di dire di no è davvero grande: «Ma non avendo sufficienti scuse per sottrarmi – racconta la suora – ho iniziato la nuova missione con timore e tremore».
L’impatto con la prigione è un pugno nello stomaco: ci sono 4 mila detenuti, in una struttura che ne potrebbe contenere 800. Per mancanza di spazio vitale, le persone dormono a turno, spesso accovacciate, persino nei bagni. Non hanno cibo né modo di tenere un’igiene adeguata. È gente poverissima, che non può pagarsi un avvocato e che spesso è abbandonata dalla famiglia. In un contesto così estremo, dilagano le epidemie – scabbia, colera, tubercolosi – mentre la denutrizione e l’impossibilità di muoversi causano gonfiori agli arti, infezioni che diventano piaghe. «Tutto concorre a creare un clima di estrema violenza – commenta suor Laura –, di totale mancanza di diritti umani». Può la colpa, se c’è, giustificare tutto questo? Qui si muore per niente, per una ferita infetta, per la mancanza di un antibiotico. Tra i detenuti ci sono vecchi, disabili fisici e mentali, che semplicemente «stanno in vita». «Ancora oggi non so che cosa fare o sperare per loro».
All’inizio è difficile sostenere persino la vista di tanta sofferenza: «Sono entrata nel carcere a occhi bassi – ricorda suor Laura –, pensando che il mio sguardo potesse farli vergognare, per ciò che avevano fatto e per le loro condizioni. Poi ho capito che era il mio sguardo che cercavano, qualcuno che finalmente li vedesse. E da quel giorno non ho più abbassato gli occhi». Nel carcere centrale di Nkondengui c’è un’infermeria, sguarnita di personale e di farmaci, un simulacro di servizio sanitario. Sono le suore qui l’unica speranza a cui aggrapparsi: curano le ferite, procurano i farmaci, comprano il cibo per i malati più compromessi e i prodotti per l’igiene, nell’estremo tentativo di rendere l’inferno un po’ meno inferno. Un servizio vitale, che è sempre appeso al filo della Provvidenza, da ormai circa 20 anni.
Intanto l’estrema necessità porta le suore ad aprire la missione alle sorelle di altre congregazioni: si aggiungono una pallottina e una figlia della carità. Ciò aiuta ad alleviare la fatica e a dare una maggiore sicurezza economica al progetto.
Per rafforzare l’équipe, le suore accettano di istruire detenuti volontari, che in segno di ringraziamento si offrono per le medicazioni: «Si sono talmente perfezionati – commenta suor Laura – che potrebbero meritare un diploma d’infermiere sul campo. Sono stati loro, durante il covid, quando noi suore non potevamo entrare, a medicare i compagni, curando a volte piaghe impossibili». Tuttavia, quando alcune sorelle lasciano il servizio per limiti di età, il baratro sembra inghiottire l’unica luce di questo inferno. Suor Laura è affranta, sono rimaste solo in tre ma soprattutto non hanno più i mezzi per seguire tutte queste persone. Bussa, suor Laura, a tutte le porte, poi si rivolge a Caritas sant’Antonio: «Siamo le suore di tre congregazioni – scrive il 15 febbraio del 2023 –. La nostra missione è a rischio. Stiamo esaurendo i fondi. Spendiamo circa 7 mila euro all’anno in medicine, circa 2, 3 mila euro in cibo, garze, disinfettanti. Apriamo l’ambulatorio tre volte alla settimana, accogliendo ogni volta 30, 40 persone per la cura delle piaghe e altre 70 o 80 che accusano sintomi di vario genere. Stiamo cercando di capire se possiamo tagliare qualcosa: diminuire i giorni d’intervento? Aiutare solo i più gravi? Non fornire più il panino a chi prende antibiotici? Tante volte ci siamo trovate in questa situazione, sarete voi questa volta la mano della Provvidenza?».
Poche settimane dopo la richiesta, Caritas sant’Antonio approva 5 mila euro per il 2023. Poi altri 8 mila per il 2024. A marzo suor Laura già dà un primo resoconto: «Grazie a voi il servizio è continuato senza interruzioni, ognuno lavora al suo posto con più serenità. E anche per quest’anno ce l’abbiamo fatta. Sogniamo che questo progetto duri nel tempo, che il Signore lo tenga nel cuore, e che ci dia la forza di allargarlo alla formazione professionale, in modo che chi esce da queste porte non rientri mai più. E sogniamo anche che i governanti facciano propria la frase di Voltaire: “Il grado di civiltà di uno Stato si misura dal grado di civiltà delle sue prigioni”».
Segui il progetto su www.caritasantoniana.org
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