I due «Antonii» di Timor

Antonio è un nome caro alla popolazione timorese. Perché appartiene al nostro Santo, amatissimo tra i giovani, che sono il 70% della popolazione. E perché così si chiamava il frate domenicano Taveira, tra i primi evangelizzatori dell’isola.
09 Gennaio 2025 | di

I ragazzi del quartiere di Motael, affacciato sul lungomare di Dili, vanno da Antonio anche prima di giocare a calcio. La squadra intera va a Messa, poi una preghiera, una benedizione, una foto in divisa sportiva e via, in gara per il torneo cittadino. Antonio è un amico speciale: è il Santo che è patrono di quella Chiesa indissolubilmente legata, per la storia e per il presente, alla gioventù di Dili, la capitale di Timor Est, piccola e giovane nazione del Sudest asiatico che occupa la parte orientale dell’isola di Timor. La domenica mattina, solo a guardare la giungla di scooter, motorini e biciclette assiepati o disordinatamente parcheggiati sulla strada davanti alla chiesa parrocchiale intitolata a Santo António de Lisboa a Motael – il più antico tempio cattolico della nazione –, si può ben immaginare quanti ragazzi e teen agers abbiano scelto un passaggio spirituale, vogliano andare dal Santo e affidarsi a Gesù prima di trascorre una giornata all’aria aperta, in spiaggia con gli amici, oppure su un campo da gioco. Davanti alla chiesa di sant’Antonio, punto nevralgico di quella zona cittadina distesa verso il mare, c’è il monumento al Santo: Antonio, il santo frate che tutti invocano e che tutti pregano, nel luogo dove la gente accorre a ogni ora del giorno per lasciare un bigliettino, accendere un cero, deporre un fiore. 

Amelia, 23 anni, ha gli occhi lucidi quando dice: «Tra le sue braccia metto mia mamma che ci ha lasciato». Domingos, ventenne, ha appena accettato un’offerta di lavoro e chiede protezione perché tra un mese lascerà Timor Est per volare in Corea del Sud, dove sarà impiegato in un azienda high tech. Nel suo cuore già alberga la nostalgia, eppure non ha ancora lasciato l’isola dalle verdi colline. Ana è una mamma cinquantenne e non manca di pregare per suo figlio Pedro, che già si trova in Indonesia per studio e che, molto probabilmente, lì proseguirà la sua vita lavorativa. Mentre studia il portoghese, l’italiano, l’inglese e il francese, il giovane sogna un futuro in Europa «o almeno in un’azienda impegnata nell’export, così da poter viaggiare e vedere il mondo», spiega la madre. 

Lo sguardo del Santo

C’è uno spaccato della società timorese la domenica mattina ai piedi della statua di Antonio, che intanto guarda lontano: guarda verso il mare, quel mare di Timor che evoca un passato lontano, il tempo dei colonizzatori portoghesi che hanno lasciato tracce indelebili, culturali e religiose sull’isola. Hanno portato anche il dono della fede, il dono del Vangelo. Per altri, per gli adulti e per gli anziani, quel mare ricorda gli anni bui dell’invasione dell’esercito indonesiano, quando Giacarta – allora governata dal dittatore Suharto –, già detenendo la parte occidentale dell’isola, negli ultimi 25 anni del secolo scorso cercò di inglobare con la forza e trasformare anche Timor Est in una sua provincia. Per altri ancora, specialmente per i giovani d’oggi, il mare, con il suo orizzonte sconfinato, richiama un presente fatto, inevitabilmente, di emigrazione, perché i giovani salpano, spesso loro malgrado, alla ricerca di opportunità di formazione e di lavoro che la loro patria non riesce a offrire.

Il mare suscita, rispolvera e accompagna sogni e desideri di un futuro prospero anche perché – come spesso ricordano i leader politici di oggi – cela una risorsa preziosa per il Paese, quell’oro nero che fa gola a molti. In quelle acque cristalline, proprio nel braccio del mare di Timor, gli immensi giacimenti di petrolio presenti nelle profondità possono diventare il volano di uno sviluppo cui il Paese si sta aggrappando, in un cammino che vede la piccola nazione cercare di ritagliarsi il ruolo di protagonista, e non più subalterno, nel processo di estrazione, raffinazione e commercio. Tutte queste inquietudini, e queste speranze, abbraccia lo sguardo silente della figura marmorea di sant’Antonio che a Timor Est, nazione al 97% cattolica, accompagna da secoli la storia di fede e di salvezza di un popolo che ha ancora il Vangelo come assoluto riferimento sociale, culturale, perfino politico.

L’altro Antonio

Ma quando si pronuncia il nome «Antonio», nell’immaginario popolare timorese non ci si riferisce solo al frate francescano pure tanto amato. L’evangelizzazione a Timor Est è figlia di colui che viene chiamato il «Sant’Antonio di Timor Est»: il frate domenicano portoghese Antonio Taveira che iniziò nel XVI secolo la sua opera missionaria sull’isola, celebrando i primi battesimi e annunciando per primo il nome di Cristo. Un monumento e alcune opere artistiche ricordano i primi passi della fede nell’enclave di Oekussi, piccolo lembo di terra che, sul piano amministrativo, è territorio est-timorese dentro la provincia indonesiana di Timor Ovest. Giunto sulle navi dei coloni portoghesi, nel 1556, con un gruppo di frati domenicani diede vita al primo insediamento stabile di una comunità cattolica: «Da lì tutto ebbe inizio, da lì è cominciata una storia di fede e di salvezza», ricorda oggi il missionario verbita padre Josè Tocain che a Oekussi è nato. Lifau, il luogo dell’approdo, sarebbe poi divenuta la capitale della colonia portoghese, prima che la capitale fosse trasferita a Dili. E furono proprio i portoghesi a portare con sé la profonda devozione al Santo, originario di Lisbona. Per questo tracce di spiritualità e devozione antoniana si sono mescolati con le culture e le credenze locali degli indigeni tetun e si ritrovano anche in luoghi inaspettati.

Negli anni ’30 del ’900 il missionario padre Ezequiel Pascoal trovò nell’area di Manatuto la statua di sant’Antonio in un lulik, tempietto costruito quasi in ogni villaggio, dedicato e utilizzato dagli indigeni per i culti animisti. Nello sforzo di donare un annuncio evangelico e di purificare la fede cristiana da elementi pagani, quella statua venne trasportata in un altro lulik specificamente dedicato al Santo. Era una prima forma di cappella, nella logica di inculturazione della fede cristiana. La statua di sant’Antonio aveva un seguito di devoti e diede al missionario l’opportunità di fare catechesi e di battezzare. Oggi quella devozione è radicata tra i giovani che a Motael avvertono un legame viscerale con la loro storia. Da lì, il 12 novembre del 1991, partì il corteo che sarebbe sfociato nel noto «massacro di Santa Cruz», momento decisivo per la vita della giovane nazione. Nel pieno degli anni dell’occupazione indonesiana, i giovani timoresi parteciparono alla Messa a sant’Antonio e organizzarono un corteo pacifico nel centro di Dili, fino al cimitero di Santa Cruz. Tra le croci dei defunti, l’esercito indonesiano aprì il fuoco sulla folla inerme e 200 ragazzi vennero uccisi. Dopo quel momento, che destò sdegno a livello internazionale, il cammino di liberazione procedette con maggiore rapidità, fino al referendum del 1999 che sancì l’indipendenza. Indipendenza vuol dire sviluppo, autonomia, futuro da costruire con le proprie mani, spesso partendo da zero, perché le milizie indonesiane, nell’abbandonare Timor Est, lasciarono dietro di loro solo macerie.

Quei tempi e quel passaggio cruciale sono ben presenti e vividi nella memoria collettiva. In una società in cui, secondo statistiche ufficiali, la popolazione sotto i 30 anni è circa il 70% su oltre 1,2 milioni di abitanti, si avverte chiara la pressione dei giovani che chiedono alla politica percorsi in istituzioni educative di alto livello, opportunità di formazione professionale, incentivi per l’imprenditoria. Spesso, proprio perché questo processo è lento e faticoso, e dato che la disoccupazione la fa da padrona, la soluzione per le migliori energie morali e intellettuali della nazione è cercare fortuna all’estero. Da Paesi come Indonesia, Corea, Australia ma anche Portogallo e Regno Unito, i giovani migranti timoresi continuano a occuparsi e a pensare alle loro famiglie di origine – spesso in contesti rurali, di semplici agricoltori e pescatori – e non mancano di inviare rimesse, sostenendo l’economia nazionale. Alle nazioni dove approdano portano in dono un patrimonio prezioso di fede, vivendo la testimonianza cristiana con semplicità e convinzione. In un virtuoso «dare e ricevere» che ben rappresenta anche l’approccio che la piccola e giovane Timor Est segue nei rapporti con la comunità internazionale.

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Data di aggiornamento: 09 Gennaio 2025

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