Verso il luogo del cuore
I termini porta e porto hanno la stessa etimologia, indicano luoghi da cui si parte verso orizzonti più larghi. Il Giubileo, che adotta l’immagine della Porta santa, si propone esattamente come un tempo di ripartenze: «Sei la porta Signore, / non un muro sordo / e invalicabile / non il fine corsa / ma l’introduzione. / E dimora all’infinito migrare, / una tenda» (A. Casati). Il più famoso abitatore di tende è stato Abramo. Il capitolo 12 della Genesi riporta le prime parole a lui dette da Dio: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Gen 12,1). A me, a tutte le donne e gli uomini che sono sulla faccia della terra, Dio rinnova, rilancia le stesse parole: «Vattene», in ebraico lech lechà. Lech è l’imperativo del verbo andare, lechà significa «verso di te». I commentatori del primo Testamento interpretano questa espressione con «vivi secondo i tuoi sogni, viaggia verso di te, diventa te stesso, parti per te» (G. Marmorini).
Le prime parole di Dio a un uomo storico suggeriscono, sosteneva Michela Murgia, che anche le prime parole dette a ogni bambino dovrebbero essere «lech lechà, diventa te stesso, diventa ciò che sei». Nel mistero della lingua ebraica sembra che all’interno di quell’imperativo sia implicito il segreto di ciò che tutti stiamo cercando. I rabbini dicono che Dio non ti chiederà perché non sei stato come Mosè, ti chiederà, meravigliosamente, perché non sei stato te stesso. Lech lechà: Dio vuole l’uomo libero, incamminato, felice. Dio vuole che tu sia te stesso. Come Abramo, che lascia la casa senza sapere dove andare e, soprattutto, senza voltarsi indietro. Al Rumi scriveva: «O uomo, viaggia da te stesso in te stesso, che da simile viaggio la terra diventa purissimo oro». E Angelo Silesius: «Fermati, dove corri? Il cielo è dentro te!». La grande sapienza spirituale ci ricorda che il viaggio fondamentale è il ritorno al cuore, reditus ad cor. La vita altro non è che un pellegrinaggio verso il luogo del cuore (O. Clément).
Lech, lechà: rientra in te stesso, come la fame ha suggerito al ragazzo partito di casa in cerca di felicità, che si ritrova a rubare le ghiande ai porci: «Allora rientrò in se stesso» (Lc 15,17). Prima viveva come fuori di se stesso «fuori di me ti cercavo e tu eri dentro di me» (Agostino d’Ippona). Un famoso scalatore dell’Everest racconta un aneddoto: mentre saliva sull’Himalaya, accompagnato da uno sherpa nepalese, questi a un certo punto si fermò e si sedette. Lo scalatore gli chiese perché, e lui rispose: «Mi siedo per aspettare la mia anima, perché è rimasta indietro». La nostra vita come una corsa senza tregua, una scalata senza respiro, al punto che spesso l’anima rimane indietro, è altrove. Che ti giova guadagnare l’Everest, il mondo intero, se poi perdi l’anima?
Lech lechà, diventa ciò che sei. Ma chi sono io? Sono le mie idee? No, ne ho cambiate così tante nel corso degli anni... Sono le mie emozioni? Ho dentro una tavolozza con tutti i colori, luminosi e oscuri: non sono la mia babele di emozioni. Sono la mia volontà? No, perché so quanto è fragile e inaffidabile. C’è qualcosa di più profondo in me, qualcosa che le religioni hanno chiamato «cuore». Abramo, ritorna al cuore! Il cuore non è la sede dei sentimenti, è il tempio del silenzio, la porta di Dio: «Ti ascolterò Signore purché tu voglia allargarmi il cuore» (Sal 119,32); è il luogo dove nascono i sogni; dove si sceglie la vita o la morte; dove si è felici o no, che brucia e arde, come per i due di Emmaus; dove si dubita e si crede (è col cuore che si crede: Rm 10,10). Lo aveva già profetizzato Osea 2,16: «Ti condurrò nel deserto è là ti parlerò sul cuore», non solo «al» ma «sul» cuore, senza più distanza alcuna, come la bocca dell’amato posata sul cuore dell’amata.
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