Lo stupore di sant’Antonio

In Kerala, la regione più meridionale dell’India, la popolarità e la devozione nei confronti di sant'Antonio sono sorprendenti. Ogni martedì, le «sue» chiese sono invase da migliaia di fedeli. Induisti, musulmani, cristiani hanno fiducia in lui.
17 Novembre 2025 | di

Fra Michael ci ha riservato una sorpresa. Arrivati, il mattino di un lunedì, a Kochin, capitale economica del Kerala, la regione sud-occidentale dell’India, Michael, 48 anni, provinciale dei francescani conventuali, ci fa subito sapere che l’indomani saremmo saliti in montagna. Il martedì è il giorno di sant’Antonio, ero certo che ci avrebbe accompagnato alla chiesa di Kaloor, città-sobborgo di Kochin. Mi avevano raccontato che questo è il santuario più importante e affollato di un’India sorprendente: solo la Basilica padovana, raccontano qui, può vantare un numero più alto di pellegrini devoti a sant’Antonio. Ma invece no. Michael ci porta, dopo quattro ore di auto e di curve su curve, a casa di Rina e Tom, suoi amici. All’ingresso della loro casa vi è una geometria di piccoli scaffali, una sorta di altare casalingo, dove sono poggiati una moltitudine di oggetti sacri, di immagini di Maria, di statue di sant’Antonio. C’è il tempo per una breve preghiera, poi riso, verdure, tapioca, uova. Ma dove siamo atterrati? 

Il Kerala, «la terra delle noci di cocco», è un’eccezione nel subcontinente indiano. Soprattutto nelle sue regioni centrali, quasi a ogni incrocio stradale vi è un luogo di preghiera dedicato a san Sebastiano o a san Tommaso e, soprattutto, a Maria e a sant’Antonio. La geografia delle chiese cristiane è fittissima. Questa è un’India diversa dal nostro immaginario occidentale. Qui gli induisti sono la maggioranza, più della metà della popolazione; i musulmani superano il 27%, ma i cristiani sfiorano il 20%, mentre nell’intera India sono poco più del 2%. «Il cristianesimo arrivò dal mare», ha scritto Arundhati Roy, grande scrittrice nata in Kerala. Questa è una regione costiera, quasi 600 chilometri di spiagge e lagune, porti e approdi. Porta d’ingresso di navigatori, mercanti, colonizzatori, eserciti invasori. E missionari. Qui, negli anni immediatamente successivi alla risurrezione di Cristo, sbarcò proprio l’apostolo che ne aveva dubitato. Arrivò Tommaso, era il 52 dopo Cristo. Vi trovò già una piccola comunità ebraica: erano gli eredi dei sopravvissuti, nel 587 avanti Cristo, alla distruzione di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor.

La predicazione di Tommaso trovò, come le piante delle spezie, un terreno fertile e lasciò radici solide di un cristianesimo orientale. Che sorpresero san Francesco Saverio, uno dei fondatori della Compagnia di Gesù, che arrivò in India, dopo un viaggio di un anno, nel 1542. Trovò cristiani che già conoscevano da più di mille anni la fede e la liturgia dalle chiese siriache. Qualche decennio prima, alla fine del ’400, erano già sbarcati sulle coste occidentali dell’India anche i missionari portoghesi al seguito di Vasco de Gama. La costa sud-occidentale dell’India è conosciuta come Malabar. I cristiani di queste terre divennero siro-malabaresi, un cattolicesimo orientale che, alla fine, accettò la giurisdizione della Chiesa cattolica romana. Con i portoghesi «sbarcò» anche sant’Antonio. 

Fra Michael ci porta in una chiesa piccola, senza pareti, a fianco di una casa di poche stanze come convento, accerchiata da piantagioni di cardamomo. È martedì, giorno dedicato a sant’Antonio, e la chiesa di Kattappana, cittadina di 60mila abitanti, diventata municipio solo dieci anni fa, è affollata di centinaia e centinaia di persone. Le Messe, i canti, le anafore si susseguono una all’altra. Sarà così per tutto il giorno. Fino a notte fonda. Messe lunghissime, dalla doppia liturgia: orientale e latina. Il sacerdote è rivolto verso la gente durante la liturgia della Parola, in direzione contraria nella liturgia eucaristica. Un compromesso con il rito pre-conciliare, che ha messo fine, solo pochi anni fa, a una disputa frontale tra parte del clero siro-malabarese e il Vaticano. 

Un frate, al microfono, scuote la folla dei fedeli. Tutti alzano le braccia al cielo e le ondeggiano. Canti, musiche. È una devozione avvolgente, di molteplici gesti popolari. Si accendono mille candele, si sistemano ghirlande di fiori finti al collo di Antonio, una donna mi invita a seguirla, mi porge una ghirlanda, mi fa togliere le scarpe e anche io abbraccio il Santo con questa collana fiorita. Mi offrono acqua, sale, limone e cardamomo. Si lasciano messaggi ai piedi delle statue di Antonio. Si versa olio che scivola in una piccola vasca. A centinaia, con pazienza infinita, si avvicinano ai quattro frati che a fine Messa si dispongono attorno all’altare. Si implora una grazia, si confessa una necessità, si aspetta un incoraggiamento. I frati ascoltano. Rispondono. Confortano. Benedicono. Spruzzano acqua benedetta. La folla è un flusso continuo, ininterrotto. 

Il Kerala è davvero sorprendente ai nostri occhi occidentali. Il tasso di alfabetizzazione è il più alto dell’India e dell’intero Sud-est asiatico, ben oltre il 90%. Il tasso di corruzione è il più basso di tutto il Paese. Mi dicono che qui le caste quasi non esistono (credo però che non sia del tutto vero). Arundhati Roy scrive che tutto questo «può dipendere dal gran numero di cristiani presenti nel Paese» da quasi 2mila anni. Erano 200mila nel 1876, oggi sono oltre 6 milioni. Su una popolazione di 33 milioni di persone. Un gran numero di scuole e di strutture sanitarie è gestito dalla Chiesa.

C’è un apparente paradosso: il Kerala è il primo Paese al mondo in cui un partito comunista è andato al potere vincendo le elezioni. Accadde nel 1957. E, da allora, vi è stata una continua alternanza elettorale con il partito conservatore. Che si è interrotta solo negli ultimi anni: dal 2019, il primo ministro del Kerala è un comunista. Due mandati consecutivi. Le bandiere rosse con falce e martello sventolano agli incroci stradali accanto alle statue di sant’Antonio e a piccoli templi induisti. Il Kerala è un mosaico a più colori: uno Stato governato dai comunisti, con una forte e influente minoranza cristiana e cattolica, che venera con fede sant’Antonio. Ad Angalamy, città del Kerala centrale, all’ingresso dell’ashram Assisi Shanti Kendra, casa provinciale dei frati conventuali, vi è una statua di Cristo, seduto nella posizione Sukhasana, la più classica dello yoga, pollice e indice che si toccano. Il suo sorriso è felice. Sereno e tranquillizzante. 

I pescatori delle coste del Kerala avevano bisogno del cristianesimo. La pesca qui è sempre stata una delle ricchezze di questa India, ma i pescatori erano una casta inferiore, relegata negli ultimi gradini della società. I cristiani predicavano l’uguaglianza tra gli uomini. Era un’illusione, ma anche una possibilità. Un vecchio censimento del 2010 rivelò che il 43% dei pescatori del Kerala era cristiano. Nel Sud della regione questa percentuale saliva oltre l’80%. Non credo che la situazione oggi sia molto cambiata. «Ogni volta che usciamo in mare sappiamo di correre pericoli, per questo ci affidiamo a Maria e a sant’Antonio», mi dice un pescatore. 

Benny Vazhakkoottahill è il parroco di Chettikad, importante centro di pellegrinaggio antoniano, a poca distanza dalla foce del fiume Periyar: «Sono cresciuto in una famiglia di pescatori, raggiungevo questa chiesa a piedi. Tre chilometri. Sapevamo che sant’Antonio ci proteggeva e che avrebbe aiutato mio padre nella pesca». Nel piazzale in terra battuta c’è un’altissima statua del Santo, una donna vestita di rosso fotografa suo figlio vestito con un saio francescano. A Pallipuram, porto costiero, salgo su un peschereccio ormeggiato alla banchina: sopra il timone vi sono le immagini di Antonio, di Cristo, della Sacra Famiglia. Assieme alla benedizione cristiana, al varo di ogni nuova imbarcazione un prete spezza una noce di cocco: gesto della tradizione religiosa hindù. Leggo le parole di un pescatore, sicuro di sé: «Antonio ha compiuto tredici miracoli, l’ultimo era solo per noi, per esserci vicino». Eppure Antonio, nel febbraio del 2012, non riuscì a proteggere due pescatori, Ajeesh Pink e Valentine Jelastine, dai colpi sparati da due fucilieri della Marina italiana a bordo di una petroliera. Il peschereccio si chiamava «Saint Anthony». 

In Kerala, Antonio è ovunque. Ho visitato decine di chiese a lui dedicate, soprattutto nella zona centrale dello Stato, attorno alla città di Ernakulam, capitale economica della regione, e nel lontano Sud. Nessuno sa dirmi quante sono. A Puntanchira, uno dei villaggi della piana costiera, mi fermo davanti a una di queste chiese. È nuova. Sorge accanto a un incrocio tra strade secondarie: una tettoia protegge una grande statua di Antonio di fronte al quale si inginocchia la mula del miracolo di Rimini, accanto sventola una bandiera rossa con una grande falce e martello, sull’altro lato della strada un «tabernacolo» induista. Il tempio è poche centinaia di metri più avanti. Nel febbraio del 2020, reliquie di sant’Antonio raggiunsero, da Padova, il Kerala. Oggi almeno due chiese del Kerala, a Koratty e a Chettikkad, le conservano. Il nostro viaggio sulle tracce del Santo è cominciato in una parrocchia di montagna, ora bisogna tornare nella piana costiera. La National Highway 544 permette di raggiungere il mare. 

La grande chiesa di Kaloor si affaccia su una trafficata strada, il suo sagrato è una sorta di banchina attraversata da migliaia di persone a ogni ora del giorno. Di notte, la chiesa di sant’Antonio è sfavillante di luminarie colorate. Un fiume di persone va e viene, di solito si ferma per una Messa, ma lunga è la fila anche per le confessioni. Sul marciapiede, di fronte all’ingresso, anche i passanti più frettolosi trovano il tempo per accendere una candela. I canti, le litanie, i rosari sono incessanti. Ascolto un sacerdote che spiega a un gruppo di ragazzi: «Saint Anthony is a “miracle worker”», Antonio, «operatore di miracoli». Alcune donne e due ragazzi camminano sulle ginocchia per giungere il più vicino possibile all’altare. Si sta in piedi, ci si siede sul pavimento di marmo. Fisso la statua di Antonio, credo che abbia fatto l’abitudine a questo caos sacro e festoso. Chiudo gli occhi. Con quali parole posso raccontarvi della frenesia di questo luogo e della sua grande pace? L’India è una terra immensa, contraddittoria, affascinante per noi occidentali, il Paese più popolato della terra, un miliardo e mezzo di persone che a me sembrano tutte in questa chiesa. Antonio non smarrisce la sua serenità e anche il Bambino che tiene in braccio si lascia sfuggire un sorriso: entrambi stanno proprio bene a Kaloor. Stanno bene in Kerala.

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Data di aggiornamento: 17 Novembre 2025

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