Il regista inglese Ken Loach racconta la storia di Daniel, uomo malato, senza lavoro né sussidio che assiste Katie, povera e affamata, madre di due bimbi, e come lui vittima delle pastoie burocratiche.
La benedizione e la fatica morale dell’amicizia. Anche il cinema sa impartire miracolosi ordini ai nostri sogni inconfessati, alle menti ferite, al cuore congelato dalla paura della fine.
Identificare la disabilità con la malattia è, in parte, una falsità scientifica. Si continua infatti a inserirla in una visione ospedalizzante e limitata, perpetuando una visione della realtà a compartimenti stagni.
Un caffè, ma soprattutto un punto di riferimento per i malati del morbo neurodegenerativo e per i loro familiari. È l’esperimento pilota nato ad Arzignano, nel Vicentino, su modello nordeuropeo.
New York, inizio ‘900, ospedale Knickerbocker (detto «The Knick») di Harlem. Attesa media di vita: 47 anni. Il dr. Thackery è stanco, bruciato da un carico lavorativo devastante e dall’ambizione di escogitare approcci tecnici nuovi.
«Ciò che lentamente prendeva forma dentro di me nei lunghi mesi passati si è fatto ora certezza folgorante: il dolore colpisce, intercetta una vita facendole comunque del male, prende una traiettoria e prosegue con inerzia verso un esito sconosciuto, mai uguale, mai prevedibile. Bisogna afferrarlo un dolore e bisogna consegnarsi a lui; parlargli e ascoltarlo, bisogna agirlo e patirlo. E poi, se possibile, provare a decidere cosa farne. Sento che per me la cosa più bella e naturale è riuscire a farne dono agli altri».