Accogliere la vita

La nascita è il miracolo, dice Hannah Arendt, che preserva il mondo dalla sua rovina infondendo fede e speranza nei viventi. Ma ogni nascita è tale perché esiste l’altro, esiste una relazione. Costruire speranza è, dunque, costruire comunità.
24 Febbraio 2025 | di

Denunciata «la perdita del desiderio di trasmettere la vita» che conduce a un «calo della natalità», papa Francesco afferma che «l’apertura alla vita con una maternità e paternità responsabile è il progetto che il Creatore ha inscritto nel cuore e nel corpo degli uomini e delle donne» (Spes non confundit, 9). L’umano, in quanto creatura, non ha origine da e in se stesso. Essere creatura implica una dipendenza, ma anche una destinazione. Proprio il limite del dipendere contiene il dinamismo verso il futuro, la progettualità. L’uomo è chiamato a farsi, a divenire se stesso. Il vocabolo creatura ha in sé un senso di futuro e di ulteriorità insito nella desinenza latina del participio futuro (-urus/ura). Nel legame con il passato c’è la proiezione al futuro, nella coscienza della dipendenza da altri è inclusa la vocazione alla soggettività, a (co)-crearsi. Creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26), l’uomo è chiamato a sviluppare la dinamica di dono e responsabilità in cui consiste la polarità dell’immagine (dono) e della somiglianza (responsabilità). Una parte è di Dio (il dono dell’immagine), una spetta all’uomo (il compito della somiglianza). L’uomo è un essere incompiuto, che deve farsi umano (e sempre incombe su di lui la possibilità di divenire inumano). L’apertura alla vita è dunque apertura all’altro e al futuro, due realtà a cui rapportarsi con responsabilità e gratitudine, cogliendone, al tempo stesso, la dimensione di impegno e di dono.

In particolare, l’apertura alla vita si manifesta nel generare, ed esprime così la speranza come impegno e responsabilità (1Pt 3,15), come lavoro e costruzione di futuro. Ma si configura anche come accoglienza della vita che si apre e viene verso di noi, come nella nascita, evento che nessuno sceglie e che è sempre legato a una relazione che ci precede. Nessuno è ancora riuscito a nascere da solo. E qui la speranza appare come dono e grazia. Ora, nella Bibbia la nascita di un figlio costituisce un «vangelo»: è buona notizia per eccellenza (Ger 20,15: la versione greca del testo usa il verbo euanghelízomai). La nascita è il miracolo, dice Hannah Arendt, che preserva il mondo dalla sua rovina infondendo fede e speranza nei viventi, fede e speranza che trovano la loro «più gloriosa ed efficace espressione nelle parole con cui il vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato fra noi”».

E la narrazione evangelica dell’evento di Betlemme (Lc 2,1-20) contiene tre elementi costitutivi dell’apertura alla vita. Anzitutto, lo stupore (Lc 2,18). Che è l’apertura meravigliata al nuovo, al miracolo del rinnovarsi quotidiano del sole che sorge e della vita che rinasce. Che vive ogni giorno come fosse il primo e rende l’umano un bambino degno del regno del cielo. Lo stupore che discerne la luce della rivelazione nell’opacità del consueto. Quindi la riflessione, il pensare (Lc 2,19). Perché lo stupore è inizio di conoscenza e la vita è materia anche rude che esige di essere raffinata con interrogazione, intelligenza, penetrazione, discernimento. La fede stessa esige intelligenza e riflessione. Dice Agostino: «Chiunque crede, pensa, pensa con il credere e crede con il pensare… la fede, se non è pensata, non è nulla». E infine la lode (Lc 2,20). Perché solo nella lode e nel ringraziamento si palesa che la vita e la sua rivelazione hanno raggiunto l’umano. La lode è il grazie per il miracolo per niente scontato e per niente meritato della vita donata, dell’oggi rinnovato. La lode è amore che risponde all’amore.

L’uomo non è solo un «mortale», ma anche e, forse anzitutto, un «natale», un essere segnato dalla nascita che è evento relazionale che lo fonda e gli imprime nell’intimo, come sigillo del suo divenire e maturare, il rapporto con il tu. «Divento io dicendo tu» ricorda Martin Buber. E la nascita biologica, che è per tutti la porta d’accesso all’umano, non è che un primo passo a cui altri dovranno seguirne nell’evoluzione della persona che dovrà crescere attraverso distacchi e nuovi attaccamenti, morti e nuove nascite (nascita psicologica, sociale, spirituale…). La differenza? Veniamo al mondo senza averlo voluto: le altre nascite richiedono la libertà e la scelta personali. L’apertura alla vita che è la nascita segna il nostro cammino umano configurandolo come un essere-per-la-relazione. Il nome imposto alla nascita e il volto che sigilla l’unicità del nuovo nato sono quanto di più personale egli abbia, ma sono anche ciò che lo rinvia costantemente all’altro. Il mio nome è chiamato da altri; il mio volto è visto da altri. E in questo non essere senza l’altro gli umani costruiscono la speranza, che è sempre centrata su un noi, mai su un io. Costruire speranza è costruire comunità.

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Data di aggiornamento: 24 Febbraio 2025
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