C’è speranza in noi e intorno a noi
C’è speranza. Certamente c’è speranza. Siamo circondati da informazioni feroci che ci stordiscono. Le guerre sono tornate dopo tanti anni di pace (almeno intorno a noi, nell’Occidente vicino). Violenze, scippi, furti ci stringono nella paura. Ma davvero questo non è tutto il mondo che abbiamo. Noi cristiani abbiamo la speranza: «Che ci è posta davanti. In essa infatti noi abbiamo come un’àncora della nostra vita, sicura e salda» (Eb 6,18-19). È fissata, ancorata, nella promessa realizzata di Gesù che non permette alle forze del male di avere l’ultima parola. L’àncora è un’immagine marinara che sentiamo vicina e che resta (oppure è ridiventata) attuale in questo tempo di morte in mare, dove si assiste alla deriva della nostra disancorata umanità.
Ma nelle opere degli artisti molto presto la speranza ha assunto la forma di una donna, giovane. Giotto nella Cappella degli Scrovegni la rappresenta come figura femminile alata che raccoglie la corona da un angelo. Il Pollaiolo la vede in una donna pensierosa, forse in preghiera. Canova mette insieme le due rappresentazioni e la sua Speranza è una donna che afferra una grande àncora. E poi c’è Gustav Klimt. Il pittore raffigura due volte la Speranza, a distanza di pochi anni. In entrambi i dipinti c’è una giovane donna in attesa di un bambino. Nel primo appare nuda (fu uno scandalo) circondata da potenze maligne, senza difese, ma non debole. Lo sguardo che ci rivolge è sicuro. Nel secondo invece è vestita in modo regale e forse prega. Anche qui ci sono dolore e morte, rappresentati da un teschio e da donne addolorate, ma c’è l’idea della vita che resiste ed è bella.
Ecco, oggi nel mondo non nuovo, squassato da guerre e vortici reazionari e regressivi dettati dalla paura, la speranza c’è ed è custodita in ciò che le donne ancora non hanno potuto dare al mondo perché è stato loro impedito. Eppure il Nuovo Testamento conferisce alle donne ogni possibile (per l’epoca e per ogni epoca) responsabilità e dignità. Le donne sono discepole, cambiano la predicazione di Gesù (la cananea di Mt 15, 21-28: non solo per gli ebrei è la buona notizia! Come non ricordare ogni giorno che da questo nasce anche la nostra fede…), annunciano la risurrezione per prime e senza paura, sono diaconesse. Poi saranno martiri e sante, badesse, dottori della Chiesa. Davvero ormai la teologia ha liberato l’interpretazione del Vangelo e la stessa teologia dal maschilismo. Da quel tarlo che ha corroso la possibilità di restituire tutto intero il Vangelo al mondo.
L’arcivescovo di Algeri Jean-Paul Vesco ha scritto che «nei dicasteri del Vaticano, dove le donne cominciano a essere più numerose che in passato, e dove occupano posti di maggiore responsabilità, il clima è completamente diverso. Bastano poche donne perché la Curia non sia più quel ristretto gruppo clericale purtroppo così facilmente stigmatizzabile». Anche nelle parrocchie è così e anche in politica può essere così. Qualche giorno fa, in un contesto di credenti sinceri e impegnati, qualcuno si chiedeva se le persone laiche sono in grado di assumere responsabilità nella Chiesa oppure se loro stesse si autoescludono per sfiducia e sfinimento. C’è questo pericolo sì, perché siamo stati a lungo abituati a forme di sudditanza ma questo non vale come scusa. Siamo chiamati al coraggio di farci avanti e stare dove fin dall’inizio il Vangelo ci ha collocati, senza pompa e senza rivendicazione. Ma guai scappare, ora che qualche strada è aperta. Ora tocca a tutti, uomini e soprattutto donne di fede, liberare la Chiesa dalle costrizioni che si è data da se stessa. C’è speranza.
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