Leggeri come custodi di speranza
L’aggettivo leggero e le parole sorelle, cioè che hanno a che fare con il suo significato, non godono di buona reputazione nel nostro parlare comune. «È una persona leggera» si dice di un uomo, e soprattutto di una donna, in molti modi inaffidabile, poco seria. Ha una connotazione decisamente morale e, come spesso capita quando si parla di morale, il tema è il sesso. Nessuno pensa a un evasore o a un imbroglione quando si dice persona leggera. Si pensa che sia fedifraga o almeno affettivamente giocherellona. Anche la musica leggera è pensata meno seria di quella classica, più facile da scrivere e da riprodurre, più pop. Mentre il peso, incredibilmente, può essere positivo. Può indicare immediatamente un valore. Una persona di peso è qualcuno che ha potere, o influenza. Portare il peso della propria esperienza in un’azienda significa far valere conoscenze e competenze acquisite. E poi, la persona seria pesa le parole, è ponderata (dal latino pondus, cioè peso) nei giudizi, soppesa le ipotesi e così via.
È facile riconoscere che anche la storia della spiritualità cristiana è segnata dal sospetto verso la leggerezza. Sappiamo della cattiva opinione che il Medioevo cristiano aveva del riso, che deforma il viso e scuote il corpo scomponendone l’armonia, e san Francesco che si definiva giullare di Dio sostanzialmente non contesta questo giudizio ma lo assume come vestito di umiltà. Qua e là, anche in contesti fondanti, la leggerezza intesa come gioia liberatoria ha cercato di farsi valere anche nel cristianesimo. Ad esempio nel risus Paschalis, il riso della notte di Pasqua, quando la vittoria della vita sulla morte veniva celebrata pure attraverso il riso che il celebrante provocava con battute, scherzi e motti. Una consuetudine lunga che non è sopravvissuta e le nostre assemblee e il nostro esercizio della vita spirituale hanno assunto la gravitas (ancora il latino, vuol dire peso e anche serietà) come immagine più consona alla fede e hanno messo ai margini la leggerezza. Tanto che quando papa Francesco ne ha diffusamente parlato in una intervista televisiva di qualche anno fa, si sono riempiti i giornali di editoriali piuttosto sorpresi e di segno opposto. Eppure la buona novella del Vangelo è che possiamo vivere davanti a Dio nella leggerezza dell’essere amati e quindi liberi. L’esperienza umana dell’amore è sotto il segno di questo sentirsi più leggeri perché finalmente siamo riconosciuti e amati. Il cinema e la letteratura ci avvolgono di queste immagini: camminare per la strada quasi senza peso dopo un bacio o una dichiarazione d’amore, ballare abbracciati sotto la pioggia, correre su un prato nel vento.
Certo esiste eccome, per tutti, il peso di un dolore. Come la morte di chi abbiamo amato. In questo mese noi cristiani facciamo memoria dei morti. Quale leggerezza è possibile? «Caccia la malinconia dal tuo cuore, allontana dal tuo corpo il dolore», dice Qoèlet (11,10) ma è chiaro che i sentimenti non tollerano l’imperativo. Non si ama né si odia a comando. Quanto al dolore, capita che ne siamo così intrisi che a volte si spera la morte perché il dolore muoia con noi. Ma possiamo ricordare, nel senso biblico di far rivivere, e così scoprire, riscoprire per noi oggi. Ricordare il gesto dell’Angelo, all’alba del «primo giorno della settimana», che rotola la pesante pietra del sepolcro e ci si siede, leggero, e ricordare i piedi leggerissimi delle donne che senza il peso di pensieri sospettosi, «con timore e gioia grande» corrono a dare l’annuncio ai discepoli (Mt 28). Ricordare la Risurrezione ogni giorno ci aiuta ad accogliere la leggerezza. E a essere riconoscibili come custodi di speranza per il mondo.
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