Lo sfidante cammino dei pellegrini non vedenti
Non tutte le mail hanno lo stesso peso. Prendi quella arrivata all’indirizzo del «Cammino di sant’Antonio» il 21 agosto: «Siamo un gruppo di 15 persone dai 16 ai 38 anni, non vedenti (ciechi e ipovedenti). Insieme al nostro staff, faremo un tratto del Cammino. Come potete immaginare, questo è per noi molto sfidante. Per rendere il nostro cammino veramente vivo, inclusivo e indelebile, abbiamo la necessità di costruire delle immagini mentali da regalare ai nostri ragazzi, specie per quanto riguarda la storia di sant’Antonio. Ci potete dare una mano in questo, condividendo con noi le energie, emozioni e fatiche del Cammino da Camposampiero a Padova?». Firmato: Gabriele Marino, Coordinatore Giovani Veneto dell’Unione italiana dei ciechi e degli ipovedenti (Uici). Wow… Se questi giovani accettano la sfida di camminare, anche noi dobbiamo accogliere la sfida di accompagnarli! Per interpretare l’opportunità al meglio, ci vorrebbe un frate, ma la data scelta, il 6 ottobre, è speciale in Basilica del Santo: a ridosso della festa di san Francesco del 4 sono in programma due professioni solenni, sabato 5, e altrettante ordinazioni presbiterali per la domenica. Feste grandi. Per le quali la gran parte dei frati è impegnata.
Con qualche timore, in mancanza di meglio offro la mia disponibilità ma… come ci si prepara per un compito del genere? C’è chi, battendomi la mano sulla spalla, si lascia andare a un sarcastico «Tanti auguri». Qualche altro, con competenza in materia, offre invece spunti utili: «Devi puntare su un racconto esperienziale che valorizzi gli altri sensi, e che sia molto puntuale, specifico. Se ci pensi, noi vedenti apprendiamo a partire dal generale, afferriamo il concetto di “albero” e solo poi focalizziamo che quella è una quercia, un salice, un pino. Il non vedente fa il percorso opposto. Conosce prima la quercia, e poi arriva all’idea di albero».
Si parte!
L’appuntamento è per le 7.30 alla Casa di spiritualità dei Santuari antoniani di Camposampiero. Il meteo è favorevole, e non è questione di poco conto per un camminatore, specie dopo settimane battute dalla pioggia e dal freddo, con un’intensità inconsueta tra settembre e ottobre. L’aurora colora di viola le rade nuvole, l’arco alpino si staglia con una vividezza rara all’orizzonte, tanto che già si intravede la neve sulle cime più alte, mentre sui campi ristà una leggera, fugace bruma, come colta all’improvviso, di sorpresa. Mi rendo conto che sono tutte immagini visive… Il gruppo ha già camminato il giorno precedente per 27 chilometri da Rossano Veneto, lungo la variante del Cammino di sant’Antonio che scende da Bassano del Grappa.
La meritata sosta a Camposampiero è preludio al percorrere l’«Ultimo Cammino» compiuto da Antonio, i 23 chilometri che separano il «buon ritiro» del Santo dalla chiesetta di Santa Maria Mater Domini, oggi inglobata nella grande Basilica del Santo. È lì che Antonio il 13 giugno 1231 volle essere portato, sentendo prossima «sorella morte» che lo coglierà alle porte della città, all’Arcella. «Vedo il mio Signore» le sue ultime parole. Inutile sorvolare su questa circostanza: quando lo racconto ai giovani non vedenti, anzi, la sottolineo. Antonio parte dal Santuario della Visione (del Bambino Gesù) e ancora si riferisce alla vista quando arriva all’Arcella. Ma in un racconto «sensoriale» della sua vita, ben più rilievo ha l’udito: Antonio è il santo dell’ascolto sapiente della Parola di Dio, tanto da saperla trasmettere con la vita e le parole, come conferma anche il rinvenimento della sua lingua incorrotta. Mi soffermo poi sugli inizi della sua vicenda, dal Portogallo al suo arrivo in Italia… «Con la malattia contratta in Marocco farà i conti per tutta la vita, risultando ben percepibile nel gonfiore del corpo», affermo. Capirò poi involontariamente origliando le parole tra due ragazzi non vedenti durante il cammino che questa affermazione ha colpito: «Ci hai fatto caso? Sant’Antonio è stato come noi, con una difficoltà da portarsi dietro ogni giorno, senza soste».
Il privilegio della libertà
Il cammino da Camposampiero segue fino alle porte di Padova lo scorrere placido del Muson dei Sassi. «Ma non sento rumore d’acqua!» osserva correttamente Francesco, uno dei più giovani del gruppo. Così, quelle rare volte in cui c’è un piccolo salto d’acqua lo faccio notare, per confermare un tratto del paesaggio. L’udito è più sollecitato dalle indicazioni degli operatori e dei volontari, che aiutano a percepire sotto i piedi i cambi di suolo e che invitano a tenersi sul lato strada il più possibile, dal momento che è frequente l’incrocio con ciclisti in solitaria o a gruppi. «Cos’è quest’odore di fritto?» nota Nancy. Ha ragione, anche se sono solo le 9 di mattino, dall’altra parte del canale c’è un McDonald’s già attivo! Ma assicuro loro che al tempo di sant’Antonio non c’era…
Lungo l’argine, si alternano numerose le varietà di alberi e arbusti, con un accenno dei colori del primo autunno, senza ancora gli screziati dei tipici rossi e gialli stagionali, se non per qualche acero già infiammato. I frutti dell’autunno identificano piante che altrimenti, al non esperto, parrebbero indistinguibili. Ecco il giuggiolo, il nocciolo, lì un melo cotogno, riconoscibile è il nespolo, e poi numerosi i cachi, con i frutti ancora duri e verdi e tutte le foglie al loro posto. Sono incerto sul segnalare o meno queste e altre varietà ai pellegrini non vedenti, mi sembra indelicato. Però hanno chiesto di conoscere anche il contesto naturalistico e quindi, mentre ci soffermiamo all’ombra di un bel noce, viene comodo il riferimento alla storia di Antonio, al suo «ritiro» sull’albero che si ergeva lì dove oggi sorge il delizioso santuario del noce di Camposampiero, custodito dalle clarisse. «Clarisse? Chi sono?» chiede curioso Michele. «Sono monache di clausura, fondate da santa Chiara d’Assisi, una donna eccezionale contemporanea di san Francesco, che battagliò perfino con il Papa pur di difendere il privilegio della povertà». «Scusa, come? La povertà è un privilegio?». «Sì, il privilegio di non essere legate ai possedimenti, alle terre, alle rendite, per vivere di provvidenza. Vedo che in molti avete zaini pienissimi e pesanti anche solo per due giorni di cammino… Quante cose inutili avete portato?». «Ah, ho afferrato. Allora più che privilegio della povertà, mi sa che è il privilegio della libertà…».
L’importanza dei segni
Siamo ormai alle porte di Padova, zona Vigodarzere. Ci aspettano un paio d’ore di cammino urbano e siamo pure un po’ in ritardo: i volontari del santuario di Sant’Antonino all’Arcella ci aspettano per il pranzo, ma non arriveremo prima delle 14 abbondanti. La stanchezza si fa sentire, anche perché il tracciato è faticoso. Ogni attraversamento pedonale è da affrontare con mille attenzioni. Ammiro la capacità di scansare, aiutandosi col bastone bianco, i tanti ostacoli lungo i marciapiedi: biciclette e monopattini mollati a casaccio, ma anche pali della luce o sostegni pubblicitari ostacolanti i pedoni. Improvviso, un rumore di lamiera allarma tutti: chi è andato a sbattere? Michele sorride, si scusa, dice che stava scherzando, che va tutto bene… Nonostante la fatica, lo spirito del gruppo è alto, la compagnia simpatica, si continua a ridere e a raccontarsela, alternando facezie a condivisioni ben più serie. Finalmente l’Arcella e la pausa pranzo! Splendida l’accoglienza e la pazienza nell’attenderci. Lisa preferirebbe un letto per riposare anziché il pasto, ma è ben grata di quanto le mettono davanti. La pasta al sugo sembra la più buona mai mangiata.
Ripartiamo. Un’ultima oretta di cammino e siamo al Santo. «Abbiamo camminato 50 chilometri, ce l’abbiamo fatta!» esclamano i ragazzi. La soddisfazione non manca. Il tempo di una foto di gruppo, di un passaggio grato in Basilica ed è già ora di salutarsi, non prima di aver timbrato la credenziale e ricevuto il testimonium di avvenuto pellegrinaggio. Sì, anche se i ragazzi non lo «vedono», è importante portino a casa questi segni tangibili della loro avventura, di un cammino che speriamo possa essere per loro segno dell’amore di Dio.
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