Padre Cortese, parola e carità
Placido Cortese nacque a Cherso, in Istria, nel 1907, primogenito di Matteo e Antonia, e fu battezzato con il nome di Nicolò Matteo. A 13 anni, entrò in seminario dai frati a Camposampiero (PD); veniva ricordato come un bravo studente, benevolo e buono. Nel 1923 vestì l’abito religioso, assumendo il nome di fra Placido; poi continuò gli studi teologici a Roma, fino all’ordinazione sacerdotale, nel 1930. La sua prima destinazione fu il convento della Basilica del Santo, dove iniziò a esercitare il suo ministero, soprattutto come confessore e guida spirituale di molti giovani. Dopo essere stato a Milano dal 1933 al 1937, stimato dai confratelli e dai fedeli, fu richiamato a Padova per diventare direttore del «Messaggero di sant’Antonio»; già nella sua precedente presenza presso la Basilica aveva collaborato con la rivista, rispondendo alle lettere al direttore nel 1933. Ora però l’incarico era più importante e fu accolto con fiducia da Cortese, che così scrisse nell’editoriale dell’aprile 1937: «Sant’Antonio mi aiuterà certamente e voi, buoni lettori e devoti del Santo, verrete incontro al mio entusiasmo e saprete compatire le mie deficienze». Nel giugno dello stesso anno rinnovò la copertina del mensile, che continuava a essere portavoce della Basilica, particolarmente legato al racconto delle grazie ricevute in nome di sant’Antonio; lo stesso padre Placido si firmava «padre Messaggero», a sottolineare questa dimensione di annuncio.
Durante la sua direzione, il numero degli abbonati crebbe notevolmente, da 300 mila a 800 mila; importanti furono anche alcune innovazioni tecniche come l’introduzione della rotativa per la stampa. Tutto questo continuò, nonostante il tempo di guerra, e sarebbe proseguito con altri progetti, ma c’era un altro fronte sul quale padre Cortese era impegnato: quello della carità, e di una rischiosa carità.
Già nel 1941 erano stati allestiti dei campi di concentramento in Italia, anche nei pressi di Padova, nei quali venivano portati resistenti sloveni, spesso giovani: la loro situazione era drammatica, al punto che tre studentesse slovene si rivolsero a questo piccolo frate croato del Santo per chiedere aiuto, dato che lui poteva entrare nel campo di Chiesanuova, alla periferia di Padova. Inizialmente, padre Placido era perplesso, soprattutto per questioni politiche (i resistenti erano considerati partigiani comunisti), ma poi prevalse lo spirito di carità: la cosa divenne ufficiale, grazie all’incarico di assistente agli internati ricevuto dall’allora delegato Pontificio, monsignor Borgongini Duca.
A partire dall’armistizio con gli alleati (8 settembre 1943), la situazione si fece sempre più drammatica, soprattutto per ebrei, dissidenti politici, ex prigionieri inglesi e americani, e molti altri braccati dalla Gestapo. Padre Placido divenne uno dei nodi più importanti delle reti di soccorso ai fuggitivi, soprattutto collaborando con il gruppo che faceva capo alle sorelle Martini e poi con il Fra-Ma (acronimo dei cognomi di Ezio Franceschini, docente all’Università Cattolica di Milano, e Concetto Marchesi, rettore dell’Università di Padova). Incontrava persone in pericolo, forniva le foto per falsificare i documenti, utilizzando quelle «offerte» al Santo presso l’Arca in Basilica (avrebbe potuto prendere quelle che arrivavano per corrispondenza al «Messaggero» prima che fossero portate all’Arca, ma non l’ha mai fatto, rispettando le richieste dei mittenti); faceva accompagnare in segreto i fuggitivi fino alla stazione, per farli scappare verso Milano e poi in Svizzera. Il tutto all’insaputa dei confratelli, che anzi vedevano con sospetto questo frate che agiva in modo indipendente; solo i suoi superiori sapevano qualcosa e lo ammonivano di aver prudenza, dato che il rischio di mettere in pericolo anche i frati era grande.
L’opera di carità svolta permise di salvare numerose persone, ma presto nella rete si infiltrarono delle spie, che portarono all’arresto di molti impegnati nella rete di soccorsi; anche padre Placido fu sequestrato, l’8 ottobre del 1944. Era un elemento chiave dell’organizzazione, come traspare da una lettera di Franceschini del 16 ottobre: «Hanno arrestato il padre Cortese, il che è un colpo gravissimo, perché sapeva quasi tutto e, nel caso riuscissero a farlo parlare, saranno guai seri». Le sue tracce si persero, nonostante la denuncia della sua scomparsa da parte dei frati; una falsa pista, creduta dai frati, lo indicava prigioniero a Bolzano nella primavera dell’anno successivo. A partire dagli anni Novanta sono emerse testimonianze decisive, come quelle di Adele Lapanje e di Ivo Gregorc, grazie alle quali si è potuta ricostruire la sua drammatica fine: portato al bunker di piazza Oberdan a Trieste, fu torturato dalla Gestapo per estorcergli i nomi dei collaboratori. Ma non aveva parlato, aveva custodito il segreto fino alla fine. Anche incontrando prigionieri che lo conoscevano non si lasciò sfuggire nulla: se avesse rivelato qualcosa, molte persone sarebbero state arrestate.
Negli ultimi anni ha ricevuto importanti riconoscimenti, sia civili che ecclesiastici, tra cui la medaglia d’oro al merito civile, conferita nel 2017 dal presidente della Repubblica e il titolo di venerabile, un passo necessario per la causa di beatificazione. Padre Placido ci lascia un’eredità importante: come comunicatore, ha saputo annunciare il Vangelo attraverso queste stesse pagine, nel nascondimento ha salvato tante persone perseguitate e, alla fine, nel momento cruciale della sua vita, ha testimoniato la carità nel silenzio, trovando nella preghiera e in Dio conforto e sostegno.
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